L'esploratore dell'altra India di Guido Ceronetti

Arte e turismo di massa Arte e turismo di massa L'esploratore dell'altra India Pubblichiamo parte della prefazione di Guido Ceronetti a Sindh, il volume in cui il pittore Stefano Faravelli raccoglie i suoi acquerelli-appunti di viaggio in India; 250 esemplari della raffinata edizione, voluta dalla Comau, sono destinati alla Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro. Pi ULLE tre Culle del genere L ' umano pensante - le tre w più note, almeno - Grecia, l 1 Gerusalemme e dintorni, ^ I India, quanto piede turistico sarà piovuto, come fuoco del Mar Morto, da quando il fiore del Turismo di Massa è sbocciato tra i nostri deserti urbani? Mezzo miliardo di piedi potrebbe essere il risultato di un calcolo rigorosamente artigianale e abbastanza realistico - in una quarantina d'anni... Ogni anno sono di più. Non c'è pensionato che si rassegni a morire senza aver visto il Gange a Benares, ma poi le malattie gastrointestinali li tormenteranno per il resto dei giorni. L'India, vittima dei suoi inauditi spermatozoi, ricambia da qualche tempo la carta da visita: cresce con più discrezione, ma inesorabilmente, il flusso migratorio anche dall'estremo Oriente: la differenza è che indiani e pachistani sono spinti verso Occidente dalla disoccupazione e dalla fame, e non ci vengono da pensionati. Ne puoi incontrare anche sotto il portico degli Uffìzi, ma non facenti coda per entrare al Museo. Tutti gli Orienti hanno ormai forti rappresentanze randagc anche nelle città italiane; piccoli adottivi con gli occhi di Sita e di Krishna sono deposti sempre più numerosi, da cicogne ben pagate e dal volo invisibile, sui fastosi televisori delle famiglie lombarde. Roma, alla fine del suo Impero... Ma i paragoni storici sono pallidi, l'umanità non fu mai tanto in movimento, non ce ne sono quasi più di radicati, il vortice è sempre più violento, le radici sono strappate, partiamo per due settimane e al ritorno abbiamo, nel quartiere, duecento ospiti stabili in più, allora torniamo a partire e, visitando il Perù (con qualche rischio) scopriamo che anche di là stanno partendo, ma sulla rotta del dollaro, e che la cavalcata mondiale di valige fameliche, nessuna fornita di preservativo, è un Attila che nulla ferma più. Partono anche da Mosca, adesso, dalla Siberia. La scusa è Monna Lisa, l'obbiettivo nascosto la fondue bourguignonne, il risotto alla milanese, l'UPIM. All'indiano, qui, mancheranno le spezie fresche: d curry è caro, dagli erboristi, la curcuma un po' meno, ma tutto è vecchio di qualche anno, come il tè. I viaggiatori di ferragosto e di Pasquetta ritornano di là con strazianti oleografie di divinità pastorali, Kalì che danza su Shiva apparentemente morto, Argiuna sul cocchio che riceve la rivelazione della Gita, proboscide di Ganesha. Il mondo che abitiamo si è fatto un po' più inesplicabile. Nessuno più osa dire che è «migliorato» o in via di migliorare. Così brutto e terrificante non era mai stato. Qualche mese fa è passato, in qualche punto dell'India, un visitatore del tutto diverso, un curioso vero, fornito di duplice vista e di cartelle da disegno; eccolo, coi tesori della sua appassionata testimonianza grafica, in questa raccolta che ben può dirsi unica. Stefano Faravelli, miniaturista assimilatore di varie potenze del Fantastico, tra Occidente ed Oriente, pittore che perviene alla figura, solitamente, attraverso la mediazione del pensiero: ma qui più abbandonato alla Cosa Vista, più spontaneo e casuale. I viaggi entrati nella letteratura servono più alla conoscenza del viaggiatore che del luogo e dei luoghi; così anche questo. E' l'artista passato di là ad attrarre, il curioso ad incuriosire: «come» avrà visto, e che cosa? Tahiti nelle visioni di Gauguin è la Tahiti dei geografi? A volte c'è la fusione: Gustave Dorè del Pilgrimage a Londra, nel 1871, è il più Dorè dei Dorè possibili, nello stesso tempo «quella» Londra senza gli straordinari appunti di questo passante geniale sarebbe rimasta sepolta nella parola e neppure la fotografia ne avrebbe fornito un'idea adeguata: il Fantastico Sociale delle immagini di Dorè è un'insuperabile testimonianza di vita urbana all'apice della sua voracità antropofagica, della sua violenza sui deboli e i vinti, trafitta dalla luce lunare di una accennante poesia. Faravelli è andato per villaggi e sobborghi, ha indugiato più sul passato che sul presente, cercando e trovando la musica per le sue corde: non l'India di Bhopal e delle stragi interreligiose, delle folle senza speranza stivate tra i muraglioni metropolitani, nell'irrespirabile caos di un industrialismo scellerato (ma la Germania dell'Est non è India, quanto a disastri industriali? e l'Italia meridionale?) ma l'India éternelle degli interni senza il soffio micidiale dell'accelerazione temporale, dei volti di calma e di saggezza (se ci sia ancora saggezza: inclino a dubitarne, tutto mi pare unificarsi nel segno della demenza, ne mostrano ebullizioni anche le facce più calme, dove ancora sembra abitare una ragione non incendiaria), l'India del suo infallibile tempo ciclico, con un poco di paccottiglia e di kitsch dei nostri giorni, l'India delle luminarie e della pazienza agricola, degli aratri non ancora finiti al Museo Contadino di Chicago. Non so se Faravelli conosca un libretto piuttosto aureo, A quel tempo, memorie d'infanzia di Rabindranath Tagore, racconto orale trascritto ed edito nel 1940, pubblicato nella traduzione di Luciano Tamburini in Italia nel 1987 (Einaudi). L'India dei suoi appunti di viaggio a dieci anni dall'allarmante Duemila dei cristiani (per gli indiani induisti una data di scarso significato) somiglia idealmente a quel Bengala vittoriano tardo, Calcutta e sobborghi, ma specialmente interni di case, giardini, terrazze, cortili, angoli, colori e, quel che il disegno non può recuperare, suoni. Non è un mondo distantissimo, anzi è molto, a volte, familiare. Leggendolo mi pareva di esserci stato; forse ci sono stato, perché chi siamo? da dove veniamo? quante volte saremo stati qui o là? Saranno state tanto diverse le canzoni che Tagore cantava, dai tanghi di Gardel, da «violino tzigano»? Nel 1940 già tutto questo era, per il narratore, un mondo sconfitto e perduto, da rievocare, come lui faceva, sulle pendici dell'Himalaya. Da uomo sensibile e spirituale sentiva il ruggito di tigre antropofaga dell'accelerazione del tempo dentro la nuca. Il suo libretto si legge come un poema, si può leggerlo a bassa voce a qualcuno, nelle case che respingono, per igiene mentale, l'innominabile macchina che vomita ombre false e maligne. Si può leggerlo tenendo accanto, per confronti giudiziosi, l'album faravelliano, che non vuole fretta, che prega lo sfogliatore affrettato e distratto di non avvicinarsi. Neppure le note scritte, che accompagnano il ricordo grafico, sono da trascurare. Dicevo di Gustave Dorè, il cui album s'intitolava London, a Pilgrìmage; dell'epoca in cui fu compiuto, questo pellegrinaggio, sono i ricordi di Tagore: ma la sua Calcutta è meno miserabile, meno tragica della Londra di Dorè e Blanchard Jerrold, autore dei testi. Oggi, molto probabilmente, le posizioni si sono invertite. E questo viaggio, anche è un pellegrinaggio... Guido Ceronetti