Chi inciampò nel controfagotto? Non sparate su chi vi cura

Chi inciampò nel controfagotto? Non sparate su chi vi cura LETTERE AL GIORNALE Chi inciampò nel controfagotto? Non sparate su chi vi cura Quando cadono i campioni Con una lettera pubblicata l'il dicembre, la signora Mariuccia Rossi «sgrida» La Stampa per la presunta inesattezza contenuta in un articolo sulla morte di Massimo Inardi. La gentile lettrice afferma che Inardi, campione di «Rischiatutto», non cadde su una domanda relativa a Mozart, bensì a proposito del controfagotto. Ma la memoria inganna la signora Rossi: il controfagotto fu il trabocchetto nel quale finì, nel dicembro 1955, Landò Degoli, profossore di matematica di Carpi, a «Lascia o raddoppia?». Leonardo Osella, Torino La salute del Papa e i nostri malanni Egregio Direttore, il comunicato d'agenzia doverosamente diffuso ai quotidiani in occasione della recente caduta del Papa mi ha un po' sorpreso. Vi si legge il conteggio del totale dei giorni dei suoi ricoveri in ospedale, e questo ha quasi ridotto a una banale pagella-punti la salute dell'illustre infermo, forse con lo scopo di farci ricordare gli inconvenienti di salute del Pontefice e consolarci un po', dimostrando che anche egli sperimenta il dolore fisico. Penso però che ciò non sia servito a molto, perché, se si riflette, ognuno di noi conosce una o più persone che si sono fatte anch'esse un centinaio di giorni all'ospedale, e qualcuna in un sol colpo magari da Natale a Pasqua (senza parlare di chi ci trascorre anni). Pensando poi agli oltre trent'anni consecutivi senza un sol giorno di ricovero, al divieto attualmente fattogli di sciare e nuotare (il che significa che, se non cadeva, avrebbe ancora potuto praticare questi non leggeri sport a oltre settant'anni), e anche al non trascurabile aiuto morale derivante dalla trepidazione del mondo intero per la sua salu- te e alle ottimali condizioni di ricovero precluse al comune cittadino, ebbene, non dico che egli sia particolarmente fortunato, ma credo che al mondo ci sia chi sta ben peggio. Pietro Saba-Cresta Rivalta Scrivia, Alessandria I farmaci e l'informazione La crisi che sta attraversando anche il settore farmaceutico non deve contribuire a demonizzare il farmaco! Né può essere accettato l'attacco strumentale portato agli informatori scientifici del farmaco, attribuendo loro responsabilità che non hanno mai avuto. Certo, nel pianeta farmaco ci sono distorsioni che gli informatori scientifici hanno denunciato da tempo, ma quale attenzione è stata riservata alle nostre denunce? E soprattutto perché, a maggior garanzia dell'eticità del servizio di informazione sui farmaci, il Parlamento non ha ancora promulgato l'ordinamento della professione di informatore scientifico sollecitato da decenni dall'AiislV Una tale indifferenza ha lasciato gli informatori soli, e ha soprattutto permesso che all'interno del settore farmaceutico prendesse corpo un capillare sistema di corruzione e di concussione a danno dei diritti dei cittadini. Un sistema emerso grazie all'operato della Magistratura e che auspichiamo sia rapidamente debellato facendo pagare i responsabili. Basta però con la cultura degli slogan, con gli attacchi scellerati al farmaco, con la politica del sospetto e con tutto quanto può produrre danno al singolo cittadino, all'occupazione, all'economia del Paese. Vogliamo invece che il dibattito sul farmaco ritorni sui giusti binari sfociando in una diversa politica che si ponga, come obiettivi, l'affermazione del suo valore sociale, la difesa dei livelli occupazionali del settore (anche attraverso i contratti di solidarietà), l'afferma- zinne del nostro diritto-dovere a contribuire allo sviluppo dell'industria farmaceutica, rifiutando e combattendo come sempre ogni violazione delle leggi. Angelo de Rita presidente dell'Associazione italiana informatori scientifici del farmaco, Firenze I turbamenti del Presidente Ho letto con ritardo il gustoso articolo di Franco Debenedetti, comparso su La Stampa dell'8 novembre («La psiche del Presidente e i messaggi notturni») e mi scuso dell'ulteriore ritardo con cui scrivo. Capisco che quella mia intervista sul Corriere della Sera del 7 novembre, concernente la natura del reato di attentato agli Organi costituzionali (non alla Costituzione) può avergli dato l'impressione di portare a conseguenze eccessive. In realtà, ho forse avuto il torto di aver dato per ovvio e scontato ciò che tale evidentemente non poteva essere per il lettore profano di diritto penale. Avevo spiegato in quelle poche battute che, stando al codice, quel reato si può commettere innanzitutto mediante un fatto diretto ad impedire, in tutto o in parte ed anche solo temporaneamente, l'esercizio delle attribuzioni o delle prerogative che la legge conferisce al Presidente della Repubblica (ipotesi più grave), oppure mediante un fatto diretto soltanto a turbare quell'esercizio (ipotesi meno grave). E, riferendomi alla dottrina di un altissimo Maestro di diritto penale, Francesco Antolisei, (...) avevo soggiunto che quel «turbamento» deve intendersi integrato da qualsiasi fatto in grado di menomare in modo apprezzabile quella serenità che è necessaria al Capo dello Stato per il regolare espletamento dei suoi compiti. Dunque, turbamento «psicologico», come sostanzialmente riportato dal giornalista che mi ha intervistato. E - si noti - si tratta di interpretazione unanime nella dottrina penalistica, con la sola eccezione di Remo Pannain. Già Pietro Nuvolone, aggiornando il IV volume del trattato di diritto penale di Vincenzo Manzini, parlava a sua volta di un mezzo «idoneo a diminuire la serenità o la tranquillità» del Presidente, in modo da «rendere psichicamente meno agevole l'esercizio delle attribuzioni o prerogative». (...) Capisco tuttavia che, per evitare apprensioni anche all'autorevole articolista, avrei dovuto tenere avvertito il lettore che, trattandosi di ipotesi delittuosa, essa implica per sua natura il dolo dell'agente. Sicché non basterebbe né la manifestazione operaia ipotizzata dall'articolista, né il penoso andamento borsistico dei titoli, né l'imprudenza di quel supposto magistrato, e così via, giacché ad integrare il delitto occorrerebbe che quei fatti fossero commessi proprio con l'intento di turbare serenità e tranquillità del Presidente al fine di alterarne l'esercizio delle dette funzioni. In altri termini, occorrerebbe un dolo specifico. E non basterebbe nemmeno la mera intenzione, perché il fatto assume penale rilevanza soltanto so, per i modi e le circostanze in cui si manifesta, possieda idoneità offensiva a conseguire l'evento. D'altra parte, «l'inquietante messaggio della notte» non reagiva né all'oscillazione dei titoli in Borsa, né a pacifici cortei di lavoratori, e nemmeno a manifestazioni di ordinaria criminalità. Reagiva, invece, a ripetuti e preoccupati segni di un piano criminoso inteso a mettere in crisi le istituzioni democratiche: un piano che viene da lontano, cosparso di cadaveri di magistrati e di rappresentanti delle istituzioni, di bombe nelle piazze, nelle stazioni e sui treni, ed ora di subdoli attacchi verbali ai vertici dello Stato, nel tentativo di coinvolgerli in complicità infamanti: e non vorrei che vi rientrasse anche il recentissimo tentativo di aizzare, l'una contro l'altra, due magistrature fra le più attive e solerti nelle indagini contro la criminalità politica e organizzata, cui tanto dobbiamo. Il vero è che Debenedetti ha intelligentemente colto nel segno - e qui convengo - quando se la prende con quella «grida che ci ricorda i doveri» di non creare turbamenti alla psiche dei reggitori: vale a dire, appunto, questo art. 289 cod. pen. Perché, non certo la gentilezza, ma la grande sensibilità alle minime sollecitazioni era propria della tenebrosa sospettosità del legislatore degli Anni 30. Al quale si devono queste grida tuttora in vigore, e anche il feroce coraggio di mandare a morte, per quelle grida, il poveraccio (Schirru) che, guardando ai balconi di Palazzo Venezia, osava arditamente canticchiare la canzoncina allora di moda: «Un'ora sola ti vorrei...». Ettore Gallo ex presidente Corte Costituzionale

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