I derelitti del dottor Balla

Scaglie di luce su larve lombrosiane Finalmente in mostra a Roma il «fondo» del grande pittore I derelitti del dottor Balla Scaglie di luce su larve lombrosiane ~f\\ ROMA I ' OME un irritato insonne, I che seguiti a rivoltolarsi 1 i nelle proprie estenuate \èA lenzuola, la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma continua a rimaneggiare le proprie sale stabili, nell'illusione di colmare i problemi di spazio, onde esporre il più possibile del proprio discontinuo patrimonio. Ma finalmente ecco che emergono in mostra alcune teie preziose del legato Giacomo Balla, sinora rimasto segregato, dopo la donazione nel 1980 da parte delle figlie Balla, graziate dagl'incredibili nomi prefuturisteggianti di Luce e di Elica. Tappe significative, di un percorso emblematico quanto sorprendente. S'incomincia da un concubinaggio curioso, nella prima stanzetta d'anticamera che scaccia via (destino c. "dele del museo) alcune tele di Spadini, che lì aveva stabilito il proprio nido. La damnatio memoriae più ingiusta, comunque, si ha ancora con il povero Melli, un grande che ha la sfortuna di non avere un nome sufficientemente popolare e che viene puntalmente punito, scomparendo dalle sale, a scapito di ben più discutibili Guttuso o di profeti modesti dei Nuovi Fronti. Domanda: non sarebbe forse meglio far conoscere un artista romano ingiustamente sottovalutato, piuttosto che non un celeberrimo grande nome europeo con un'opera magari di seconda scelta? Balla, comunque: eccolo inizialmente fronteggiare un bellissimo ritratto del torinese poeta Giovanni Cena, a firma di Felice Carena. Un taglio neodureriano, lo sfondo nero di diaspro, alla Von Marées, ma svegliato da irosi colpi di pittura moderna, sfaldata, portando nelle vene umori scapigliati e ribelli. Mentre nell'abbraccio alla glicerina della Madre, sempre di Carena, viene a galla la lezione lagunare-padana del Piccio, perfino di Grosso, che è maestro anche di Balla, a Torino. Il quale è però folgorato pure dai coevi esperimenti di fotografia, che si riverberano nei tagli inusuali dei suoi primi ritratti divisionisti. Permane comunque un influsso mitteleuropeo, in questi suoi impianti di ritratto. Come scriveva del resto l'amico più caro di quegli anni, Severini, che insieme a lui e Boccioni concepirà il Primo Manifesto della Pittura Futurista: in quei frangenti «i giovani guardavano a Monaco e Vienna, i veri centri del pensiero plastico europeo. Le Secession erano accuratamente viste, lo Jugendstil bizzoso e l'indigesto Simplicissimus erano cercati e copiati. «In Italia era ed è più celebre Lenbach di Manet, Hans Thoma di Pissarro e Liebermann di Renoir». In questo clima Balla sperimenta il suo divisionismo sentimentale e lirico, che poco ha a che fare con quello analiticoscientifico di Grubicy o Segantini. Sono significativi soprattutto i tre (dei quattro esistenti dei dodici progettati) pannelli dei cosiddetti Viventi, o derelitti, che Balla orchestra in un grandioso Polittico della Sventura. Influenzato probabilmente da Previati, riesce a fermentare in lirismo il positivismo quasi lombrosiano del suo assunto populista. Il Mendicante accasciato in chiesa, nell'illusione d'una nic¬ chia di tepore che l'addormenta (ma che differenza coloristica dalle immaginette zoliane di Morbelli!). La fragile coppia di vecchi, che paiono sostenuti da due aste d'ottone, che immobilizzano la loro cascante anatomia di reietti archeologici. In realtà si tratta di esperimenti elettrico-galvaniani che il positivista Professor Ghilarducci andava infliggendo ai suoi pazienti: e Balla, novello Leonardo travestito da medico, vi suggeva i suoi umori pittorici. Ma è la stessa materia cromatica, crollante e disfatta, che sembra a stento sostenere, nelle scaglie di luce, quelle larve di sagoma d'ospizio. Esemplare, poi, quello scorcio raccapricciato di Pazza che s'affaccia al balcone dell'artista (su cui, fra breve, lascerà traccia di festevoli linee astratte la futuristica Bambina che corre, del 1912). Un improvviso schiarirsi del tono, fra l'accendersi centrifugo di cerini dal colore filamentoso e sminuzzato, che sale sino ad invadere la cornice come un rampicante. Curioso, il percorso di Balla: dopo la sua conversione al futurismo con i suoi iridati studi sulla luce ed il «ringiovanimento» dell'universo (ottenuto mettendo in moto i suoi voluminosi arabeschi di puro dinamismo astratto), dopo un quadro curioso come Frecce della Vita (1928) che contrappone un labirintico metro di legno a serpentelli zigrinati, in una foresta alla Doganiere Rousseau, il vecchio avanguardista inventa il suo Rappel à l'ordre, personale e confidenziale. Che recupera la cartellonistica liberty con quella Biondobruna alla Ferrazzi, immillata di riflessi da vetrina di profumi, o si fa dolcemente vignettistico nei ritratti di casa, con tutti ai pennelli, o negli scorci aneddotici di città, tipo In fila per l'agnello: tra delicatezze da Sei di Torino e lo stile Novello. Marco Vallora Irosi colpi di pittura moderna perduti dopo la conversione al futurismo e il passaggio a un vignettismo casalingo Giacomo Balla, «Pazza» che s'affaccia al balcone dell'artista. Scorcio esemplare degli esiti coloristici cui era approdato il grande esponente dei futuristi, del quale Roma fa conoscere preziose tele finora segregate