Tra Klimt e Dubuffet un dilettante di classe
Tra Klimt e Dubuffet un dilettante di classe Verona, lo sconvolgente cromatismo di Cavaglieri Tra Klimt e Dubuffet un dilettante di classe VERONA ARIO Oddone Cavaglieri, nato nel 1887 a Rovigo, nel seno di una ricca famiglia ebrea di proprietari terrieri, più tardi trasferitasi a Padova in Palazzo da Zara, studi giuridici come l'amico Felice Casorati, già di qualche polemica notorietà nell'ambito veneziano di Ca' Pesaro, espone nel 1913 al Glaspalast di Monaco l'opera Interieur. Il quadro corrisponde probabilmente a Effètto di notte, opera di apertura della mostra «Mario Cavaglieri gli anni brillanti. Dipinti 1912-1922», allestita fino al 6 febbraio alla Galleria dello Scudo, con un catalogo Mazzotta, che è una vera monografia ricchissima di contributi. In quell'occasione il pittore rivede la produzione più recente di Klimt, fra cui il Ritratto di Adele Bloch-Bauer del 1912, e sulla propria copia del catalogo annota minuziosamente le infinite varietà cromatiche del grande, lussuoso quadro «à la mode». P' permette anche di annotare in alto «pennellate piuttosto in disordine». Critica che suona incoerente se si ricorda che proprio fra il 1913 e il 1914 esplode lo sconvolgente cromatismo materico di quelle opere di Cavaglieri che Longhi definirà nel 1919 «i quadri più forti che l'Italia abbia fino ad oggi sacrificato sull'ara scintillante degl'impressionismi» (comperandone due). Ma guardiamo ora in questa mostra, che toglie letteralmente il fiato. Ci rendiamo allora conto che il caos rutilante di colori che invade ogni minimo spazio di queste enormi tele è in realtà frutto di una compatta scansione di forme e di «cose». Carni e stoffe, lacche e ceramiche, legni e argenti, lo specchio e la pelliccia, l'aigrette e il giardino ridotto ad arazzo ma con quell'asciutto sentore di Cézanne che lo apparenta all'ultimo Boccioni: tutto con lo stesso valore e tuttavia tutto, cose vive e cose inanimate, inquieto e vibrato nelle paste alte - non uso il termine a caso, perché corre uno spazio minimo fra gli Anni 10 e 20 di Cavaglieri e gli Anni 40 di Dubuffet e di Pollock -; un patchwork pittorico non lontano dall'estremo Monet, un tessuto pesante ma affine a quello felpato e morbido dell'unico corrispettivo in Europa, Vuillard. Il tirocinio è breve: già in Effetto di notte dove emergono le dominanti future, il rosso e il nero, ma si tratta del rosso lacca (più avanti colerà addirittura ceralacca) e del nero vernice, la materia freme per uscire dai limiti pur avanzati di una liquida stesura libera e sprezzante, con qualche apparenza «fauve», ma più borghesemente riferibile alla mondanità di Bodlini e all'illusionismo materico di Mancini. Ma presto, 1913, nelle grandi immagini verticali di Noemi Baldin, nell'orizzontale luminosissima del primo scandaloso capolavoro. Piccola russa, trionfi di rossi-neri-bianchi, si respira una grande aria d'Europa, da Parigi (o Arcachon o Biarritz) a Vienna alla Pietroburgo di Bakst. Certo, la Maestra di scena di Boccioni alle soglie del futurismo, vista a Ca' Pesaro, ha avuto il suo peso; e Casorati, il minuzioso, lenticolare Casorati dei primi Anni 10, aveva avuto qualche tentazione in quella direzione, nella stessa direzione andavano i giochi monani di Innocenti e di Lionne. Ma il piglio di Cavaglieri è di altra statura, da gran signore amante delle grandi sfide: quelle dimensioni abnormi, quei formati singolari in verticale o in quadrato, quella sontuosa ambiguità fra quadro e arazzo giocano di sponda con Bonnard e Vuillard da una parte, con il Klimt maturo dall'altra. Ma non basta: se in Noemi Baldin sul poggiolo fiorito andiamo a guardare da vicino il tappetino su cui poggia il vaso di fiori a destra ci vien subito da pronunciare a futura memoria il nome di De Stael. Più oltre, quanto più si addensa, si aggroviglia, e anche, dove è necessario per esaltare ancora di più il grumo colorato, si squama e si inaridisce la materia, ci si rende conto anche dell'ammirazione e dell'amicizia da parte di De Pisis in Francia per il già anziano pittore gentiluomo, ritiratosi nel 1925 nel possedimento di Peyloubère in Guascogna. Ciò che rende veramente imparagonabili le immagini di Cavaglieri è la compresenza in loro di un pittoricismo puro al limite del folle, dell'insensato, del materico esistenziale che preannuncia la pittura di Dubuffet, dei Cobra, con l'immagine mondana e persino pettegola di una società al tramonto ma spregiante la bassa umanità. Certo parlare di un rivoluzionario da boudoir significa usare una formula da quattro soldi. Ma leggiamo come Cavaglieri racconta la nascita nel 1918 di Lo scialle di Boukara, che è senza dubbio l'unica e solitaria risposta italiana al «Mantello» esposto da Matisse alla Secessione romana del 1914: «Lo scialle di Boukhara è stato fatto di notte, dalla principessa Ruffo di Calabria, nel 1918: io ero in smoking e mi diedero un grembiule per non sporcarmi! La nipote della bella principessa era Mimma Airoldi di Robbiate e posò per me». Marco Rosei «I quadri più forti che l'Italia sacrificò all'Impressionismo» Mario Cavaglieri, «Piccola russa», un olio del 1913 in cui si può ammirare un pittoricismo puro al limite della follia
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