FALCONE la strage tagliata

la strage tagliata Parla il regista Ferrara: il suo film sul giudice assassinato scatena ostilità minacce e querele senza precedenti, ma al pubblico piace la strage tagliata SUBIACO DAL NOSTRO INVIATO Ieri il nuovo capo del Fbi Louis J. Freeh, un tipo giovane con mascella quadrata e occhi freddi alla Dick Tracy, che aveva lavorato in amicizia antimafia con Giovanni Falcone, è volato a Palermo a rendere omaggio alla memoria del giudice amico e dell'amico dell'amico Paolo Borsellino, massacrati. L'altro ieri negli Stati Uniti Francesco Marino Mannoia, l'ex mafioso divenuto informatore della polizia e della magistratura, ha detto che già nel 1991 Falcone temeva di venire assassinato dato che «molti suoi amici lo volevano morto perché era depositario di segreti riguardanti episodi di collusione con Cosa Nostra». Con l'ultimo weekend Giovanni Falcone, il film di Giuseppe Ferrara scritto con Armenia Balducci, protagonista Michele Placido, produttore Giovanni Di Clemente, che ripercorre agiograficamente vita, battaglie e morte del giudice in una rilettura sintetica di oltre dieci anni terribili a Palermo, raggiunge i cinque miliardi d'incassi in circa due mesi di programmazione: un record di durata e di successo, per un film italiano del genere. Il ricordo di Falcone non s'è cancellato, il pubblico apprezza Giovanni Falcone: eppure questo resta il film più avversato, censurato, tagliato, sottoposto a pressioni, criticato, querelato, deplorato, perseguito e bersagliato degli ultimi anni. Non si usava più. Da tempo censure e tribunali avevano smesso d'occuparsi dei film sulla realtà sociale italiana. I due casi più recenti erano finiti in nulla. Informa Daniele Luchetti, regista de II portaborse: «Quando il film uscì i socialisti fecero fuoco e fiamme, minacciarono chissà quali e quante azioni giudiziarie. Ma l'unica querela, avanzata a Genova da Alberto Teardo contro Nanni Moretti (che tra l'altro c'entrava poco, non essendo autore né sceneggiatore del film), s'è conclusa con il non luogo a procedere, con il proscioglimento in istruttoria». Informa Marco Bisi, regista de II muro di gomma, film sulla tragedia di Ustica: «Proteste dell'Aeronautica e promesse di trascinarci in tribunale, moltissime. Querele vere, però, una sola: quella d'un gruppo di militari in pensione, respinta dal giudice che non riscontrò nel nostro lavoro alcun vilipendio delle Forze Armate». Giovanni Falcone, invece, è ancora nella tempesta, al centro d'una vicenda che il regista non teme di definire «kafkiana». Giuseppe Ferrara, 61 anni, toscano, laureatosi in lettere discutendo una tesi di storia del cinema con Boberto Longhi, vive fuori di Boma, a Subiaco, insieme con la sua compagna Candida Martinez, una bella latino-americana venticinquenne conosciuta a Caracas, e con i due bambini di lei che ha adottato. Dal 1970 del suo primo lungometraggio II sasso in bocca fa film contro la mafia; da dieci anni sostiene e analizza l'esistenza di legami tra la mafia e i servizi segreti italiani e americani; è autore di film co¬ me Faccia di spia e Narcos, sullo spionaggio e sul narcotraffico internazionali, come Cento giorni a Palermo sull'uccisione del generale Dalla Chiesa e di sua moglie o II caso Moro sul sequestro e l'uccisione del presidente democristiano. Lo interroghiamo sullo strano, accidentato, rischioso percorso della cine-biografia-agiografia del giudice Falcone. Quali sono i tagli che il film ha subito, da parte di chi? E quanti: cinque, sei? «Domani c'è a Boma la prima udienza del procedimento mosso dall'ultimo a risentirsi in ordine di tempo, ossia il magistrato Corrado Carnevale, ex presidente della prima Corte di Cassazione, ora inquisito a Palermo per rapporti con la mafia e sottoposto a indagine da parte del Consiglio Superiore della Magistratura: si ritiene diffamato da due scene del film in cui viene citato il suo nome e viene mostrata una sua foto, chiede che quelle due scene siano tagliate. Bosaria Schifani, la giovane vedova di uno degli agenti di scorta uccisi insieme con Giovanni Falcone, il cui discorso ai funerali di Palermo ha commosso tutta l'Italia che l'ha visto e rivisto alla tv e che figura per qualche secondo nel film come nei trailers del film, ha fatto causa al produttore per ottenere un risarcimento, ci accusa: voi usate il mio dolore per fare soldi. Il magistrato Vincenzo Geraci, che il film indica come uno dei componenti del Csm che cercarono di sbarrare la strada a Falcone, ha chiesto il taglio di quattro scene relative; il giudice ha concesso con ordinanza il taglio di due scene; io ho fatto ricorso, tra poco lo si discuterà. Il medesimo giudice ha negato a me il reinserimento di tre scene: il produttore le aveva tagliate contro la mia volontà, io gli ho fatto causa e l'ho perduta, eppure erano scene cruciali...». Cosa raccontavano? «Un viaggio di Falcone negli Stati Uniti, un suo colloquio con Tommaso Buscetta sui rapporti mafia-politica: fatto che viene negato, risulterebbe formalmente improprio perché Falcone era già fuori dell'inchiesta, era a Boma, chiamato dal ministro Claudio Martelli al ministero di Grazia e Giustizia. Per quelle scene, capita di tutto. Dal ministero della Giustizia, da un magistrato appartenente all'entourage della signora Ferraro che ha preso il posto di Falcone, arriva un fax al produttore: Falcone non andò mai in America in quel periodo né parlò mai con Buscetta. Il produttore viene convocato al ministero, gli dicono: guardi che le sorelle di Falcone faranno una conferenza-stampa per dire agli italiani di non andare a vedere il film. Contemporaneamente, il magistrato che guida a Caltanissetta le indagini sull'uccisione di Falcone, di sua moglie e della sua scorta, chiede pure lui il taglio di quelle tre scene: possono danneggiare le mie indagini, dice. Il produttore, intimidito, taglia. I modi di questo intervento sono tanto pesanti e impensabili da confermarmi (come già avevo saputo all'inizio dal nipote prediletto di Falcone) che quel viaggio e quell'incontro sono avvenuti; e da lasciarmi credere che siano stati fondamentali, che proprio in quella occasione Falcone abbia saputo le cose che sono state poi causa della sua morte». C'erano stati, prima, altri interventi? «Altroché. Il 7 ottobre, il produttore organizzò una proiezione di Giovanni Falcone a Boma invitando magistrati, giornalisti, personalità varie: c'era persino Sgarbi. C'ero anch'io e vidi che tra le diverse didascalie che concludono il film ne mancava una, quella che diceva "L'ex capo del governo senatore Andreotti è indiziato per crimini in concorso con la mafia": a tagliarla era stato, senza dirmi nulla, il produttore, che avreb¬ be voluto Andreotti del tutto assente dal film dove lo si vede soltanto di spalle. Poi è stata la volta di Bruno Contrada, uomo dei servizi, presuntuosamente riconosciutosi nel personaggio definito 'u dottore, che è invece la condensazione e personificazione di tutta un'organizzazione. Prima ha chiesto e ottenuto il taglio di una delle didascalie finali, quella che diceva "Il numero tre dei servizi segreti (Sisde), ex capo della Squadra Mobile di Palermo, è arrestato per associazione mafiosa"; poi ha fatto causa in sede civile a me e al produttore, chiedendo due miliardi di risarcimento. Quando ha avanzato queste richieste stava in prigione, e ancora ci sta. Ma tutto è cominciato molto prima del film stesso». Cosa vuol dire? «Pressioni per convincermi a non fare Giovanni Falcone, minacce ("Se la troupe verrà in Sicilia romperemo le macchine da presa"), intimidazioni contro la piccola troupe che avevo mandato a girare la commemorazione di Falcone il 24 maggio di quest'anno a Palermo, telefonate allarmanti, divieti del figlio di Borsellino, visite d'una avvocatessa insieme con un sacerdote per persuadermi a desistere, accuse: "Ferrara vuole speculare"». E lei? Non si pose il proble¬ ma delle famiglie addolorate, dei fatti non ancora chiariti, delle accuse di sfruttamento? «Come avrei potuto raccontare la storia di Falcone senza parlare di Borsellino? Dell'incompletezza degli eventi non mi sono preoccupato: con la mafia siamo in guerra, non possiamo fare gli storici accademici o gli studiosi olimpici, le persone di cultura e o cineasti devono dare risposte immediate, non si possono aspettare le decine d'anni dei processi italiani. E se non sono offensivi i libri o gli infiniti servizi giornalistici e televisivi su Falcone, perché dovrebbe risultare offensivo un film? Il diritto di cronaca lo avrà pure il cinema, o no? Anche per vedere Guernica di Picasso si paga il biglietto: vuol dire che Picasso speculò sui morti, che il museo specula sulla strage del bombardamento di Guernica? Critiche simili nascono forse da un pregiudizio sulla poca serietà del cinema o da un'idea sproporzionata dei forti guadagni che dal cinema si possono ricavare». O magari da un giudizio su di lei, sul suo stile, sul suo modo di fare cinema. «Io sono un convinto brechtiano. Faccio col cinema un lavoro didattico. Il mio linguaggio non è grossolano, come dicono i critici: è semplice. Mi accusano "fai il Museo delle cere", perché cerco le rassomiglianze fisiche coi personaggi reali: ma anche Chaplin, quando doveva fare Hitler ne II dittatore, si metteva i baffetti alla Hitler. Mi chiamano "il nonno di Samarcanda" e a me viene da ridere. Mi rimproverano di fare troppi film sui morti: ma mica sono stato io ad ammazzare le vittime della storia recente, Falcone, Moro, Dalla Chiesa, Pinelli, Allende, Che Guevara; non li ho mica commessi io i trenta delitti del Sasso in bocca, compreso il delitto Bizzotto. Mi dicono che i miei film sono guazzabugli, troppe accumulazioni, troppi fatti, non si capisce niente: ma la gente ha fame di capire e capisce, capisce. Tanto è vero che anche Cento giorni a Palermo e II caso Moro ìianno incassato quasi cinque miliardi ciascuno e hanno avuto 10-12 milioni di telespettatori la prima delle tante volte in cui sono stati trasmessi in tv». Insomma non si rimprovera nessuna leggerezza, nessuna approssimazione? «Non è che sono pazzo: io ho fatto tutto il film documentandomi e sotto stretto controllo di un legale. La sequenza sul giudice Geraci era stata radicalmente cambiata, proprio per consiglio dell'avvocato: e me l'hanno tagliato lo stesso. Mi rimproveravo, sì. Mi dicevo: questo film è un giulebbe, racconta meno di quanto abbiano scritto i giornali. Ero costernato. Mi vergognavo. Sentivo di non essere stato all'altezza della situazione. Tutti questi attacchi mi danno invece la soddisfazione di poter sperare che il film i denti ce li abbia, che morda; e mi fanno pensare che questi signori sono ancora forti, che il potere ce l'hanno ancora». Lietta Tornabuoni Gian Maria Volontè nei panni di Moro e a sinistra lo statista. Nell'immagine grande Michele Placido nel film «Giovanni Falcone» nelle altre due foto il giudice ucciso e il regista Giuseppe Ferrara A fianco il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato con la moglie nel 1982, e a destra Lino Ventura, che lo ha interpretato nel film di Ferrara