Sciascia calci in bocca ai «santi» della Piovra di Mirella Serri

r Il sociologo Arlacchi lo accusa: «Con la mafia era un codardo». Insorgono gli intellettuali del Sud Sciascia, calci in bocca ai «santi» della Piovra La difesa di Bufalino: «Fingeva di assecondarli, in realtà li aggrediva» EULLE ali del Cigno arriva un pesante attacco a Leonardo Sciascia. Intervenendo a proposito del romanzo di Sebastiano Vassalli, che ricostruisce l'assassinio di Emanuele Notarbartolo a opera dell'Onorata Società [La Stampa ne ha parlato venerdì), lo studioso di mafia Pino Arlacchi allarga la polemica al più rappresentativo scrittore di cose di Cosa Nostra. «Ho riletto di recente II giorno delia civetta cA ciascuno il suo - ha dichiarato a Repubblica -. Vi ho trovato la magnificazione del potere mafioso, una visione nichilistica e profondamente cinica sulla possibilità di sconfiggere la mafia». E rincara la dose: «Per non dire di quella noticina che compare nel Giorno della civetta: "Ho passato molto tempo a cavare, a cavare per rendere irriconoscibili i personaggi di cui parlo, perché in Italia, scherza coi tanti ma lascia stare i santi". Bene: è un messaggio di una codardia civile spaventosa». Lo studioso - che è stato anche uno degli ideatori della Dia, la direzione nazionale antimafia - prende le difese di Vassalli poiché rappresenta un modo di parlare di mafia più freddo e distaccato di quello di Sciascia, «tutto interno al modo di sentire siciliano». Ma l'idea del narratore di Racalmuto piegato nella riverenza a padrini e boss solleva vivaci proteste. Un altro scrittore siciliano, Gesualdo Bufalino, nega che esista lo «sciascismo» di cui parla Arlacchi, la subalternità codarda alla Piovra: «E' un giudizio che nasce da una deformazione professionale. Arlacchi è un mafiologo, non capisce il rapporto sottile che nell'opera di Sciascia intercorre tra realtà e finzione, intelligenza e fantasia. Sciascia ha un modo ironico e sornione di trattare il problema mafia: finge di assecondarlo, di essere conciliante, ma in realtà lo aggredisce. Così nella nota al Giorno della civetta, citata da Arlacchi, dove parla di un male italiano e non siciliano. Ha un ammicco malizioso che gli consente di prendere le distanze dalla materia. Insomma costruisce un piedistallo per il lettore così delicato che i piedoni di un mafiologo rischiano di schiacciarlo». Ma Arlacchi ha il dente avvelenato con Sciascia per la famosa polemica che provocò parlando di «professionisti dell'antimafia», con riferimento per nulla velato a alcuni giudici come Falcone e Borsellino. Per il sociologo l'atteggiamento di Sciascia non è stato un fatto personale e contingente, ma si colloca in una linea di continuità con tutta una cultura siciliana, subalterna a Cosa Nostra, che va da Gaetano Mosca a Tornasi di Lampedusa. Ma lo scrittore Enzo Siciliano sostiene che, se di linea di continuità si vuol proprio parlare, essa è di tutt'altro segno: «Arlacchi ha le ragioni dell'uomo d'azione e non capisce la rappresentazione della mafia che ha dato la letteratura, da Verga a Capuana, fino a Tornasi di Lampedusa, che è un grandissimo, e a Sciascia che ha nutrito in modo irrefutabile la nostra coscienza civile. E poi la nota che compare nel Giorno della civetta per l'epoca in cui fu scritta era molto velenosa. Era un vero e proprio calcio in bocca per i "santi"». Non ci sta a considerare Sciascia prigioniero di un'immagine invincibile della Piovra nemmeno Tullio De Mauro, il cui fratello Mauro, impegnato in un'inchiesta sulla mafia, scomparve nel settembre '70: «Non sono sempre stato d'accordo con le opinioni di Sciascia. Ma adesso ci troviamo di fronte a un pesante attacco postumo contro di lui. Eppure i suoi libri ci hanno aiutato a aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposto in prima persona, lo sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulle punta delle dita. E Leonardo eia lì, come in un'altra serie innumerevole di circostanze. Un sociologo dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito pcifcttamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica». In difesa di Sciascia, Bufalino spende un altro argomento: «Non si può dimenticare chr> quando scriveva non si era ancora verificato il fenomeno del pentitismo. Cosa Nostra era quella della sua infanzia, un'ombra che permeava la vita della Sicilia e non poteva parlarne con l'agio di questi saccenti di oggi. E poi l'antimafia è un terreno scivoloso. Sciascia può anche aver sbagliato, magari perché, a Palermo, parlava con magistrati che avevano punti di vista diversi da quello di Falcone e Borsellino. Ma il suo impegno e la sua buona fede non possono essere messi in discussione». E lo scrittore di Comiso ricorda un significativo aneddoto: «Sciascia e io partecipavamo alla cerimonia di un premio culturale in Sicilia. A un certo punto uno dei presenti gli si avvicinò e sussurrò qualcosa. Leonardo lasciò la manifestazione. Non voleva trovarsi fianco a fianco con Salvo Lima che stava arrivando». Mirella Serri De Mauro: «Ci ha aperto gli occhi». Siciliano: «Una lezione di civismo» Pino Arlacchi (a sinistra) attacca Leonardo Sciascia (nella foto sopra): «Per lui la mafia non si poteva sconfiggere»

Luoghi citati: Comiso, Falcone, Italia, Lampedusa, Palermo, Racalmuto, Sicilia