Alla Scala Muti fa miracoli

Alla Scala Muti fa miracoli Alla Scala Muti fa miracoli Ma l'opera non sarà mai un capolavoro MILANO. Scappato di corsa al tempio di Vesta, dove incominciava il secondo atto della «Vestale» di Spontini, sono rimasto in debito con i miei lettori di un resoconto più completo dello spettacolo che ha inaugurato la stagione scaligera 1993-'94. A dare il peso giusto alle parole, non parlerei di trionfo, ma di applausi convinti e prolungati; alla fine anche qualche fischio, forse per la fragilità della conclusione: dopo tanto apparato, e dopo pagine di qualità molto alta, il sipario cala su alcuni numeri di balletto con musiche di desolante routine, musiche che fanno subito venire voglia di sentire, magari sul più infame dei pianoforti, qualche accordo dodecafonico o dissonante. Nelle sue scelte programmatiche là Scala mette spesso un tono rivendicativo e insofferente di contrarietà. Riccardo Muti ha una passione per il filone teatrale che da Gluck attraverso Cherubini e Spontini arriva 'al Rossini del «Guglielmo Teli», il filone alto e nobile della «tragèdie lyrique», e ne ha dato testimonianze ammirevoli per penetrazione e intuito (con diramazioni nell'irregolare Berlioz, in esecuzioni memorabili di «Romeo et Juliette» e delle «Nuits d'été»): ce n'è quindi abbastanza per giustificare una riproposta della «Vestale» di Spontini senza bisogno di ammonirci a considerarla un capolavoro che ha aperto la porta a tutti Wagner compreso. Dal podio Muti fa miracoli, ma neanche lui può trasforma¬ re in oro quello che oro non è; oltre al secondo atto, la cui bellezza era risaputa, gli siamo riconoscenti per la riscoperta di molte pagine: l'esordio della sinfonia, con i legni lamentosi, tali e quali Progne e Filomena, che aprono una vena dolente che corre fra le sponde dell'ufficialità trionfante; il finale del primo atto con uh coro celestiale che proprio nella sua estraneità sottolinea, sublimandola, la drammaticità della situazione (Giulia, da sacerdotessa, deve incoronare Licinio che ama); la grande trenodia del terzo atto, con il fatale «perisse!» pronunciato dal popolo e infine il coro delle sacerdotesse di Venere con la sua costumata allegria Biedermeier. Con tutto ciò, nel suo insieme, l'opera continua a sembrarmi più importante che bella; rappresentativa, come poche al¬ tre, di una stagione teatrale europea, ma astuta e premeditata, costruita su situazioni tipiche e, in fondo, poco simpatica, come sono spesso le opere (e le persone) importanti; parlo, naturalmente, secondò il mio gusto personale: mica si può capire tutto a questo mondo. Lo spettacolo, come è trapelato dai primi bollettini, è degno delle tradizioni scaligere, m specie per l'eccellente prova dell orchestra e del coro. La lingua francese, come si sa, è la più difficile del mondo da cantare e nella compagnia vocale, dove non c'erano francesi, l'ostacolo si è fatto sentire: Karen Huffstodt, nella parte della protagonista, è parsa una voce troppo emotiva, poco assimilata, per la scultorea, argentata, evidenza della scrittura spontiniana, ma nel secondo atto ha tenuto bravamente il campo di

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