Risorgimento «ricostruito» di Sergio Romano

1878: nascita di un mito 1878: nascita di un mito Risorgimento «ricostruito» PER la morte del magnanimo suo Re - disse quel, giorno ai bambini il maestro di aritmetica di una scuola italiana - è stato proposto d'innalzare un monumento per offerte, raccogliendo lo scudo del ricco ed il centesimo del povero. Fissandosi la spesa di L. 3.240.000, quanto dovrebbe offrire l'uno per l'altro ciascuno dei 27 milioni di abitanti d'Italia?». Correva l'anno 1878, uno dei peggiori nella storia recente dello Stato unitario. Il 5 gennaio morì Alfonso La Marmerà, ministro della Guerra nel primo ministero Cavour, comandante del corpo di spedizione italiano in Crimea, presidente del Consiglio nel 1859 e dal 1864 al 1866. Quattro giorni dopo passò ad altra vita Vittorio Emanuele II, stroncato da una polmonite nella sua nuova residenza romana, al Quirinale. Passò un mese e scese nella tomba anche il suo avversario al di là del Tevere, Pio IX, l'uomo che maggiormente aveva suscitato e deluso negli anni precedenti le speranze degli italiani. Qualche mese dopo, in marzo, la mala sorte si abbatté sul governo. Costretto a dimettersi da un'accusa di bigamia, il ministro dell'Interno, Francesco Crispi, si trascinò dietro l'intero gabinetto Depretis. L'estate registrò gli insuccessi della diplomazia italiana al Congresso di Berlino e il sanguinoso scontro delle truppe regie con i seguaci di Davide Lazzaretti, «profeta di Monte Amiata». Notìer# finita. Il 7 novembre un anarchico, Giovanni Passanante, nascose il pugnale in una bandiera rossa e si gettò contro Umberto I durante un corteo a Napoli, colpendo a una gamba il presidente del Consiglio, Benedetto Cairoli. Il giorno dopo a Firenze, mentre la folla scendeva in piazza per manifestare la propria devozione al sovrano, una bomba fece quattro morti e parecchi feriti. Si diffuse la convinzione che gli «internazionalisti» avessero dichiarato guerra alla dinastia e allo Stato unitario. La polizia fece razzia di rivoluzionari e i tribunali celebrarono, nel giro di qualche settimana, centoquaranta processi. Benché giovanissima l'Italia unita aveva già contratto l'abitudine d'intravedere nelle proprie sventure il disegno oscuro di un complotto internazionale. E' questo il clima in cui gli allievi delle scuole elementari del regno d'Italia furono chiamati a calcolare quanti centesimi ogni italiano avrebbe dovuto sottoscrivere per contribuire alla costruzione di un grande monumento in onore del «Re Galantuomo». In un bel libro, pubblicato dal Comitato di Torino per la storia del Risorgimento italiano, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Umberto Levra ricorda che fra quel «tema in classe» e le terribili vicende del 1878 corre un rapporto. L'improvvisa morte del re suscitò nella classe dirigente unitaria un senso di smarrimento e paura. L'Italia aveva molti nemici, all'interno e all'esterno, troppi per un Paese fragile, unito da meno di vent'anni, travagliato da vecchie piaghe, fondato su un consenso tiepido e incerto. Con un soprassalto di coraggio e di orgoglio la classe dirigente decise di fare del re morto il cemento dell'unità nazionale, di trasformare una pericolosa fase di transizione in una esaltante occasione unitaria. Comincia così una delle più grandi operazioni «promozionali» e storiografiche che un Paese abbia compiuto nel corso del secolo scorso. Nascono in quei mesi, racconta Levra, i tre miti convergenti del «Re galantuomo», del «Padre della Patria» e del «Gran Re» su cui poggia da allora gran parte della ideologia risorgimentale. Occorreva, naturalmente, correggere la storia, ignorare che Vittorio Emanuele aveva perseguito, a seconda delle circostanze, obiettivi diversi, dimenticare gli episodi meno edificanti della sua vita. Quando Giuseppe Massari, autore di una biografia che apparve immediatamente dopo la morte, scrisse a Isacco Artom, per raccogliere informazioni e ricordi, il vecchio segretario di Cavour gli rispose: «...di quanto' ho inteso raccontare di Lui, gran parte non si potrebbe ripetere, né tu vorresti raccontare... Io credo però che sia bene per ora lasciare che si formi la leggenda popolare intorno al suo nome. La storia farà più tardi il suo ufficio di assegnare a ciascuno la parte che gli spetta nel gran dramma della formazione dell'unità italiana». La leggenda fu costruita con i solenni funerali al Pantheon, le pubbliche orazioni, le biografie encomiastiche, le lapidi, i commossi pellegrinaggi dei cittadini sulla tomba, le delibere dei Consigli comunali che annunciavano la costruzione di un monumento o la intestazione di una via al nome del re scomparso. Levra mette in evidenza come si formino in quegli anni i riti e le liturgie di una «religione della patria» che è destinata a «fare gli italiani». La retorica, vecchio vizio nazionale, amplificò il coro delle lodi e dei lamenti, espose l'intera operazione al rischio del ridicolo. Il Paese, ricorda Levra, fu sommerso da una «profluvie di... inni in musica, preghiere cantate, acrostici, carmi, odi, stornelli, salmi, elegie, sonetti caudati e non, terzine, quartine, sestine, ottave, in endecasillabi, settenari, polimetri, prose, esametri e distici latini». Torino si batté strenuamente perché il re venisse sepolto a Superga, insieme ai suoi avi, e vi fu persino qualcuno che cercò di tagliare il nodo con la proposta di una «salma pendolare», in continua trasferta tra la vecchia capitale del regno sabaudo e la nuova capitale del regno d'Italia. Come disse Carducci cinque anni dopo, dietro il popolo nuovo, risorto dal lungo sonno della storia, vi era sempre un «vecchio popolo di frati, di briganti, di ciceroni, di cicisbei». Ma l'operazione, complessivamente, riuscì. Dopo averne descritto lo sviluppo Levra ricorda che negli anni seguenti l'immagine del Risorgimento continuò ad essere corretta e modificata, ora in senso sabaudo ora in senso democratico, dagli storici, dagli intellettuali e dagli uomini politici. Fra coloro che ebbero una parte determinante in questo lavoro spicca, secondo l'autore, Francesco Crispi. Il vecchio cospiratore mazziniano, clamorosamente passato alla monarchia nella fase conclusiva della creazione dello Stato unitario, costruì, soprattutto fra gli Anni Ottanta e la fine del secolo, una versione nazional-popolare della storia risorgimentale. Per raggiungere lo scopo spostò l'accento dal re alla nazione, valorizzò i plebisciti come manifestazione di volontà popolare, trasferì il baricentro del processo di unificazione dal Nord al Sud, dal Piemonte alla Sicilia, e sostenne che fu l'isola, con l'insurrezione di Palermo del 1848 e la spedizione dei Mille, nel 1860, il «motore» dell'unità. Ma questa parte del libro di Levra merita un'altra recensione. Potrebbe scriverla Gianfranco Miglio, senatore della Lega e fondatore della « R.epubb 1 ica del Nord». Sergio Romano