Un trovarobe spiritista per il Vate

Lago di Garda: riscoperto Giancarlo Maroni, l'architetto del Vittoriale Lago di Garda: riscoperto Giancarlo Maroni, l'architetto del Vittoriale Un trovarobe spiritista per il Vate Esperto in western e creditori 1|| GARDONE 7 EREMITA delle pietre lo definì immaginosamenj te Orio Vergani, come —U stregato dalla suggestione della visita al Vittoriale. Ma lo stesso D'Annunzio aveva in serbo per lui definizioni ancora più liricheggianti, con cui lo coglieva all'amo delle sue sovreccitate missive: «Maestro di pietre vive», «Granitico viatori), «Mio compagno combattente, che chiude le mie memorie in una grande custodia di pietre». Torna, dunque, quest'immagine petrosa, rocciosa quasi, montanara, di quella sua figura di folletto spiritato, dalla ribelle barbetta alla Italo Balbo. Ma sarebbe un errore chiudere la figura di Giancarlo Maroni entro l'alveo marmoreo e cemeteriale del cenacolo dannunziano: certo la sua fama gli deve molto, ma - come concluse un esperto del costruire quale Wenter-Marini - alla fine «l'architetto trionfa sul poeta». Così, coerentemente, è stata concertata in due sedi separate la stimolante mostra «L'Architetto del Lago»: da un lato al Vittoriale di Gardone, dall'altra a quel Museo Civico di Riva del Garda, che è contornato di sue costruzioni, meglio: riadattamenti. «Nato sotto il segno di Saturno, rifugiatosi in un esoterismo ingenuo ed ossessivo» come scrive Fulvio Irace, nell'interessante prefazione al ricco catalogo Electa (che contiene anche interventi documentatissimi di Annamaria Andreoli e di Rossana Bossaglia), Maroni è un artista singolare, che dalle sue prime prove (qui benissimo esemplate sui suoi farfuglianti taccuini) di gusto secessionistababilonese, molto wagnerianofunerarie, tra Otto Wagner, D'Aronco, la «vivezza policromatica» di Arata e 1'«architettura pittorica» di Chiattone, approda ad un gusto molto sobrio, marmoreo, littorio o déco italiano, che si voglia definire (con imprestiti da Muzio, Portaluppi, in ultimo anche Giò Ponti, che vorrebbe far collaborare al Vittoriale). Come dimostra tutta la sua produzione rustico-lacustre, «proto-mediterranea», dalla razionalistica spiaggia con faro di Riva (che tanto incontrò il favore di Piacentini) all'aggettante Centrale Elettrica del Ponale, che trattiene, come un'artritica mano alla Sant'Elia, la crollante montagna a strapiombo sul lago. Era stato allievo di Mentessi e Moretti (quello della centrale elettrica di Trezzo d'Adda). Trentino, si muoveva nell'ambito della scuola milanese e scapigliata dell'architetto-teorico Camillo Boito (sì, quello di Senso, che voleva «l'architetto ritornasse artista») ma non disdegnava la vicinanza del fratello ingegnere Ruggero, che aveva studiato alla Tecnische Hochschule di Monaco e con cui a lungo collaborò: eppure sono bellissimi questi suoi disegni gettati, spavaldi, notturni, alla Mendelssohn, che azzardano un «gigantismo caratteriz- zante le trasfusioni nostrane del Secessionismo viennese» come suggerisce Irace. Quando D'Annunzio, il «più grande tappezziere del mondo», come si autodefinisce senza ironia, lo scopre grazie al legionario trentino Piffer, Maroni è dunque già famoso, con un curriculum alle spalle di tutto ri¬ lievo. Ma il Comandante -Décorateur, che vuole trapiantare «il suo Palladio» su quel Lago redento che ha ribattezzato Benaco, invitando dittatorialmente Maroni ad «accordare il pilastro quadro della cedraia con l'arco intero del palazzo pretorio» ne fa all'inizio un sottomesso esecutore dei suoi ordi¬ ni. Un factotum che maltratta volentieri, che deve ricevere tanto i creditori quanto l'indesiderato Mussolini, che deve «comprare una cassa di frutti senza spaventarsi dei prezzi», così come disegnare la stanza del Lebbroso o delle Cheli. Afflitto «da una persistente ingenuità», come il Comandan- te Principe di Montenevoso (Monteritroso o Montemoroso, a seconda delle occasioni) non manca di fargli notare, Maroni, Gian Car-nefice, o Gian Caroverbum, secondo gli umori, officia i più diversi incarichi. Lui che non sa di latino deve moltiplicare i motti per le finte case pretorie (e s'inventa un emblema più dannunziano di D'Annunzio: «Chi più dà più deve dare», che dice tutta la sua sottomissione); deve trovare i filmini giusti per le serate accidiose (cartoni animati o western, e poi vanno a sparare «alla cow boy»); deve destreggiarsi nel cercare bibelots e mobili d'antiquariato immaginati dal suo fremente, esigente padrone, che gli riversa addosso la sua «divina sensibilità» mentre «tutte le arti e tutti i mestieri mi tumultuano nei tendini» e «una ingegnosissima scaltrita m'illumina nel modo di regolare gli intervalli e le altezze». L'altezza delle sculture che Maroni va appunto cercandogli ovunque, come un trovarobe mediceo. «Re sepolto con i suoi tesori», tenuto in imperiale disparte dal Duce, il Vate ha parlato chiaro: «Chiedo a te l'ossatura architettonica, ma mi riserbo l'addobbo. Desidero inventare i luoghi dove vivo». Come un nuovo libro, un Sacro Testo per immolarsi agli italiani. E lo confessa candidamente, nel Libro Segreto, che vuole orchestrare questo ingombrante Sacrario da lasciare in eredità agli italiani, scrivendo ancora pagine senili, per potersi mantenere lussi faraonici: «Così le cartacce continueranno a convertirsi in pietre». E Maroni, con la sua apparente remissività (spiritista, simulerà di ricevere commissioni dall'ai di là, anche scomparso D'Annunzio) impone in realtà, senza parere, sempre più il suo stile, monumentale e impietrito, riconoscibilissimo. Alla buonanima del Tirannico Tappezziere. Marco Vallerà Giancarlo Maroni, «l'architetto del lago», fotografato nel 1959 nella residenza di D'Annunzio. A destra la sua opera più famosa: il Vittoriale, a Gardone

Luoghi citati: Monaco, Riva Del Garda, Trentino