Ho scritto per nostalgia di Natalia Ginzburg

Ho scritto per nostalgia Un'intervista radiofonica ritrovata, mentre si scopre un racconto giovanile Ho scritto per nostalgia Natalia Ginzburg: i miei giorni di Torino N ATALIA Ginzburg racconta della sua gioventù torinese e il suo rimpianto per la famiglia contadina. Sono brani inediti tratti da una lunga intervista radiofonica con la scrittrice che verrà trasmessa oggi pomeriggio su Radiotre dalle 14 alle 17,15 per la trasmissione «Album di voci» all'interno del contenitore pomeridiano «Paesaggio con figure» a cura di Michele Gallinucci. Questo materiale venne registrato nel '90 a cura di Mirella Fulvi per la rubrica «Antologia». L'interlocutore di allora era Marino Sinibaldi. DA ragazza trovavo bruttissimo stare a Torino, invece del Po avrei voluto che ci fosse un fiume russo, il Don, la Neva, e mi sembrava poi che mio padre facesse un mestiere che non andava bene per il padre di uno scrittore: era professore di università, biologo, e io avrei voluto avere per padre o un principe o un contadino. Qualcosa che non fosse un professore. Questo mi dava un complesso di inferiorità molto forte: avevo la sensazione di non avere un retroterra culturale abbastanza ricco, mi sentivo una che possedeva pochissimo e quindi doveva spendere con molta parsimonia quello che aveva. Infatti mi dicevo: quando sarò più adulta avrò imparato e studiato moltissime cose, così avrò un retroterra. Una volta parlavo con Carlo Levi mentre dipingeva e lui mi disse: sì, i tuoi racconti sono carini ma tu rischi di scrivere per caso, pescare a caso quello che ti serve. Io allora ho pensato che bisognava scrivere non per caso, ma tirando fuori delle cose che si avevano dentro. Quelle parole me le sono ricordate molto a lungo. Avevo un piccolissimo taccuino dove scrivevo delle cose, però quando poi volevo usarle le trovavo come congelate lì. Mi ricordo che in questo taccuino piccolissimo una volta ci ha sbirciato dentro Soldati e c'era scritto: «Ritorno sorellina». Lui disse: cosa sarà «ritorno sorellina», e io, non so, avevo in testa un racconto ma molto vago e non sapevo cosa rispondergli. Soldati ha letto i miei racconti quando ero giovanissima, 17 anni, e se li è portati via, in un viaggio, poi mi ha mandato un telegramma, credo che sia stato il primo telegramma che abbia ricevuto nella vita. C'era scritto: «Sue novelle bellissime, anche Settembre, auguri». Questo telegramma mi fece un gran piacere perché io gli avevo detto: c'è un racconto che si chiama «Settembre», ma è brutto. Invece lui trovò che andava bene. Adesso, da molti anni non ho più in testa degli abbozzi di novelle. Sono spariti. Non ci penso, non ci penso. Ad un certo momento mi metto a scrivere e allora nasce. Quella strada al confino Ea strada che va in città l'ho scritto nell'autunno del '41, ero al confino. Mio marito Leone Ginzburg era stato mandato al confino appena scoppiata la guerra, e l'ho seguito con due bambini piccoli. La strada che va in città è un racconto nato forse dopo un anno che ero lì, a Pizzoli. Mi ricordo che ad un certo punto Pavese mi scrisse una cartolina: «Cara Natalia la smetta di fare bambini, e scriva un libro più bello del mio». Il suo era Paesi tuoi, ma io ero un po' oppressa da questi bambini... Mi sono sentita spinta a scrivere un po'. Io credo che spesso i romanzi nascano da nostalgie. Io avevo nostalgia di Torino e avevo davanti un paese che pure amavo, e da tutto questo è nato La strada che va in città. Senza famiglia si vive peggio w|N un'intervista del '73 disI si: «Questo mondo non mi I piace». Adesso mi piace anI cora meno, e lo sfascio delle *1 famiglie mi sembra la piaga del nostro tempo. Non che pensassi che le famiglie come erano andavano bene, penso che andavano ma¬ lissimo, però mi sembra che si sia creata una abitudine allo sfascio, una sorta di contagio per cui tutte le famiglie si sfasciano e accettano di sfasciarsi, e a me questo sembra triste. Mi sembra che una persona abbia bisogno di avere una famiglia, anche cattiva, repressiva, disastrata. La sua assenza mi sembra che faccia crescere le persone con delle difficoltà. In Italia è finita la civiltà contadina, e anche questa mi sembra una cosa triste, che non doveva succedere. Mi hanno rimproverato perché l'ho detto. I contadini morivano di denutrizione e di pellagra, dicono, però io penso che si poteva far sì che non morissero, che stessero bene, ma che ci fossero. Mi sembra che l'Italia sia stata industrializzata male e che siano andati perduti così dei valori molto importanti. Se non sbaglio era quello che pensava anche Pasolini. Hanno fatto delle autostrade dove c'erano dei campi, hanno riempito l'Italia di automobili, hanno fatto delle città dove le case di periferia sono degli alveari orribili. Questo ha dato origine al disagio nei giovani e nella gente. A me sembra che sia avvenuto un processo distruttivo in un paese che era fatto per l'agricoltura e per il turismo, e ne hanno voluto fare un paese industriale. Mi sembra sbagliato, però mi hanno detto tutti che ho torto. Io continuo a pensare che la denutrizione e la pellagra si possano annientare, ma in questo modo hanno annientato una cultura. Ma le cose che non mi piacciono sono tante altre. Penso che anche nel femminismo c'è qualcosa che non mi piace. Io di certo sono femminista, come lo siamo tutti, uomini e donne, come tutti dobbiamo esserlo, però il femminismo ha creato qualcosa di competitivo che non mi sembra giusto: si è creata nelle donne una mentalità da vincenti. Questo fa sì che le donne oggi sentano molto la solitudine, Natalia Ginzburg «In Italia è finita la civiltà contadina, e mi sembra una cosa triste» «Ilprimo telegramma che ricevetti era di Soldati: "Sue novelle bellissime"» In alto a destra, Mario Soldati per primo lesse e apprezzò i racconti di Natalia Ginzburg (sotto) Carlo Levi: «I tuoi racconti sono carini, ma tu rischi di scrivere per caso».

Luoghi citati: Italia, Pizzoli, Torino