Quel rimorso un fantasma che tormenta e uccide di Filippo Ceccarelli

Quel rimorso, un fantasma che tormenta e uccide Quel rimorso, un fantasma che tormenta e uccide PllllPi|I|llpB|l QUEI TRAGICI 54 GIORNI SROMA ENSO di colpa. Capelli bianchi e macchie sulla pelle, un fremito che si scioglie in malattia. Sveglie notturne, angoscia, solitudine. Poi, ciò che passa il versante pubblico, agguati e strumentalizzazioni, crudeltà e stillicidio ormai quasi regolare e a questo punto addirittura prevedibile di rivelazioni... Corsi, ricorsi, rimorsi. Del delitto Moro, ma soprattutto di come è stato vissuto a ceneri raffreddate, il ricordo della prigionia, le scene della Renault rossa riprese dall'operatore della Gbr a via Caetani, tutto il peso della scelta di non trattare, «scelta non soltanto dolorosa - come l'ha definita qualche anno fa - ma mostruosa», ecco, di tutto questo Francesco Cossiga è l'incarnazione probabilmente più drammatica, di sicuro la più replicata e plateale. Ma non esclusiva. «Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d'Italia...». L'ex presidente della Repubblica ha confidato, se così si può dire, di essere riuscito ad alleviare questo tormento dopo molto tempo e grazie anche a un saggio sacerdote che l'aiutò «a distinguere tra rimorso morale e rimorso psicologico». La sottile distinzione, insieme con il sostegno esterno, di natura religiosa, hanno tutta l'aria appartenere alla «terapia», e in qualche modo confermano la sofferenza di chi poteva fare qualcosa che non fece. E tuttavia non solo Cossiga, come dice anche quel «voi» usato da Moro in quella primavera pio vosa del 1978, ebbe il cuore schiantato dall'assassinio di Moro. Paolo VI non arrivò all'autunno. Zaccagnini, convinto che la responsabilità pubblica del segretario della de dovesse annullare il suo privatissimo dolore, non si riprese più; morì senza aver neanche potuto chiedere perdono («se ho sbagliato», aggiunse nella sua ultima intervista) ad Eleonora Moro. Rimase molto segnato anche il più fervido e intransigente seguace della già morotea «bènda dei quattro», il bresciano Franco Salvi, che già aveva sostenuto le torture dei nazisti. Ma ebbero probabilmente modo di star male, chi in un modo, chi in un altro, chi per una ragione, chi per un'altra, tutti i morotei e gli amici politici del prigioniero: Galloni, Beici, Pisanu, Rosa, Rosati, Gui, Dell'Andro e tanti altri che pure nella concitazione di quei giorni tentarono di far qualcosa di più. Forse. O forse no. La debolezza degli uomini, a volte, li convince a credere che proprio la morte di chi hanno abbandonato - o tradito serva a metterli al riparo dal sen¬ so di colpa. Nulla di più falso, perché come insegna anche il caso Moro nella sua postuma imprevedibilità, i morti non ritornano solo nelle tragedie shakespeariane. Tra la verità storica e quella politica, senza affrontare quella giudiziaria, un unico grande senso di colpa sembra far da collante e riempire i vuoti di un tempo che sembra lontano, ma non si riesce ad archiviare. Un tormento profondo, intermittente, una specie di pentimento che a tratti - sempre più spesso per la verità - si trasfigura in lunga coda di paglia. Qualcosa che riguarda l'intera classe politica e che si è presentata, fin dall'inizio, sotto le spoglie di una opaca rassegnazione. Di Moro, di quel che riguardava un delitto che aveva cambiato il corso della storia e che continuava ad agitare i sogni degli italiani, era assolutamente inutile occuparsi. Chi lo faceva, deviando dall'armamentario di noiose e retoriche cerimonie in cui era prevista anche una pervicace attività toponomastica, era uno scocciatore, o un fissato o un sabotatore. Per cui, adesso, fa anche un certo effetto rileggersi un oscuro libro di un senatore democristiano vero amico di Moro che si chiamava Cervone, e oltre alla squallida storia di un monumento che la de fece finta di volere, misurare con il senno di poi gli sforzi, le pressioni, la faticaccia che costò, per anni e anni, anche solo varare una commissione parlamentare d'inchiesta (che nessuno voleva). Come pure, una volta conclusa l'inchiesta e stampate le relazioni, accorgersi che il dorso della pubblicazione è privo di una qualunque iscrizione, e sugli scaffali lo scambieresti con l'ultimo dei documenti copiosamente prodotti nel Palazzo sulle prospettive dei trasporti o degli ordini professionali. Se ne sono andati, intanto, pa¬ recchi altri di quelli che nel bene o nel male hanno per un attimo legato il proprio nome alla sorte di Moro: Berlinguer, Pecorelli, Dalla Chiesa, Sciascia, Evangelisti. Se ne stanno andando (fino a prova contraria) anche i capofila dei due fronti che si scontrarono nei 54 giorni: Andreotti e Craxi. L'unico sentimento che non se ne riesce ad andare è questo oscuro senso di colpa, ininterrottamente alimentato dai simboli e dalle profezie: «Il mio sangue ricadrà su voi, sul partito, sul paese». Un rimorso che oltrepassa la classe politica per richiamare, in una dimensione esplorata da pochissimi studiosi, qualcosa che assomiglia a un primordiale sacrificio umano: l'offerta collettiva di una morte come vana speranza di vita. E «la vittima è sacra, dunque è un crimine ucciderla... ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse». Filippo Ceccarelli E lo statista disse «Il mio sangue ricadrà su di voi» I a vedova dello statista assassinato, Eleonora (a sinistra); Moro nella prigione delle Brigate Benigno Zaccagnini (qui sopra) e Paolo VI (nella foto qui accanto)

Luoghi citati: Italia