«Ripudio mio marito pentito»

Palermo: la scelta della donna di Favaloro, killer confesso di Libero Grassi Palermo: la scelta della donna di Favaloro, killer confesso di Libero Grassi «Ripudio mio marito pentito» La moglie: è un mezzo uomo, per me è morto «VEDOVA* D'ONORE PALERMO DAL NOSTRO INVIATO I capelli sono tinti di biondo e i vestiti neri del lutto. «E allora gli dico: che cosa stai dicendo? Niente, fa lui, sciocchezze. Pensa alla tua famiglia, gli dico, ai tuoi figli, non fare fesserie. E lui sempre a ripetermi stai tranquilla Pina, stai tranquilla, non racconto bugie a mia moglie. Non parlo perché non ho niente da dire. Mi faceva tenerezza, malridotto, dimagrito com'era, cercavo di fargli coraggio. E mi sono sbagliata. Anche a sua moglie ha mentito, quello sciagurato, e allora è un uomo che non vale, è un mezzo uomo. Non mi interessa più uno così. Per me è morto». Giuseppina Mandaranci ha 51 anni, e quei capelli tinti e quei vestiti neri lasciano un'immagine di tristezza. Negli occhi, una durezza strana. Adesso parla come se avesse davanti un notaio: la voce non si rompe mai, i toni non si alzano, e sembra quasi di ascoltare il racconto di un testimone qualsiasi, di un estraneo. Le emozioni, magari, saranno già andate via, o non servono più. Suo marito si chiama Marco Favaloro, grande pentito di mafia uscito dal clan Madonia. «Era mio marito. Era. Ho già chiesto il divorzio». Quando? «Subito, la sera stessa. Lui non è un pentito, è un infame. La sera stessa, quando l'ho saputo, ho aperto l'armadio, ho preso tutti i suoi vestiti e li ho bruciati. Qui a casa non c'è più niente di suo, nemmeno una camicia, nemmeno un fazzoletto. Neanche una fotografia». Marco Favaloro, commerciante, venne arrestato per mafia e ora è accusato di aver ucciso Libero Grassi, industriale ribelle alle leggi del racket. L'ha confessato lui quel delitto, raccontando ch'era insieme a Salvatore Madonia e che gli spararono alle spalle, un sabato mattina, a Palermo. Da sette mesi è un nome importante nel lungo elenco dei collaboratori della giustizia. E da sette mesi, Giuseppa Mandarano porta il lutto e i suoi tre figli, Giuseppe, Raffaele e Lucia, non hanno fatto altro che seguire il suo esempio. Quando lui era un uomo d onore, lei lo trattava come uno di loro, lo accudiva, lo incoraggiava. Quando lui ha ceduto, e ha confessato e ha parlato, lei lo ha ripudiato. «E come se fossi una vedova. Anzi, peggio». Storia di mafia. Storie di donne, nella terra di Sicilia, tragiche e terribili, come quella di Giovanna Cannova, madre di Rita Atria, la pentita suicida, che non andò ai funerali della figlia e sfregiò la sua tomba a colpi di martello. Storie di dolore. Cominciano forse con la madre e la sorella e la zia di Francesco Marino Mannoia trucidate da un commando. Si salvò solo Rosa Vernengo, la moglie, che aveva chiesto il divorzio. O cominciano sette anni fa con Caterina La Mantia, 34 anni, la moglie di Vincenzo Buffa che si presentò nell'aula bunker con la figlia Daniela e cinque cognate per convincere il marito a ritrattare, urlando la propria rabbia e la I>ropria disperazione in quela grande sala così spettrale, davanti ai giudici e ai carabinieri. «Enzo non è un traditore! Enzo, tu non hai mai tradito». Era il 17 marzo del 1987, e Caterina La Mantia vinse la sua battaglia, perché Buffa in pochi giorni ritrattò tutte le sue accuse. Ma Giuseppina Mandarano non ha più battaglie da vincere. Se uno le chiede se ha paura, lei nega. «E di che cosa dovrei avere paura? Mio marito è un povero pazzo, ha raccontato un mucchio di fesserie. E' vero, accusa gente innocente, ma che si può fare a un pazzo?». E se uno prova a capire, resta disarmato di fronte al suo rifiuto. Certo, «non c'è niente da capire», come dice lei. «L'hanno manovrato come un pupo. Secondo lei un uomo si lascia ridurre così?». Nella storia di Giuseppina Mandarano c'è un po' tutto il dramma della Sicilia al femminile. Perché la signora Pina è madre e moglie, ma è come se fosse anche e soprattutto sentinella severa delle regole mai scritte di un clan, di una grande famiglia. Suo marito, dice, l'hanno picchiato, l'hanno torturato, e uno può anche cedere. Ma dopo, «quando lui è uscito da Pianosa, quando ha ricominciato a ragionare, allora doveva ritrattare, doveva pensare a me e ai suoi figli. Invece a noi non ci pensava. Si è venduto la sua reputazione, e pure la nostra». A Livorno, spiega Giuseppina Mandarano, è ferma una denuncia contro ignoti per maltrattamenti «al detenuto Marco Favaloro». Dice proprio così, e il notaio può registrare. Lui era in carcere a Pianosa dove l'avevano portato subito dopo l'attentato, nel luglio dell'anno scorso, e andò a trovarlo il figlio Raffaele: «Aveva subito torture psicologiche, fisiche, mentali. Stava dentro la cella, nudo. Ogni tanto ci sbattevano dentro i cani, e stavano in quel buco lui e i cani. Roba da impazzire. E dev'essere impazzito davvero. Era dimagrito di molti chili. Io non sono capace di stare a Pianosa, continuava a ripetermi». E lo trasferiscono a Rebibbia. Perché aveva cominciato a parlare? Giuseppina: «Non lo so. Io mi ricordo quella volta che sono andata a trovarlo a Roma. C'è stato un fracasso lì dentro che ancora mi ricordano». Lei, forse, tentò di convincerlo a non parlare. «No, questo è quello che dicono i giudici. Io so solo che lui manco mi riconosceva tanto era ridotto male. Aveva la bava alla bocca, era in uno stato pietoso, e piangeva come un bambino. Che dovevo fare io? Gli ho detto che gli stavo vicino, che non l'avrei mai abbandonato, che bisognava reagire. Io ho cercato solo di farlo ragionare, di rincuorar¬ lo. E lui mi diceva: non ho detto niente. Sei sicuro? Non stare in pensiero, Pina. Io insistevo, mi raccomando pensa alla tua famiglia, non combinare sciocchezze. E lui: non ti preoccupare, io non so niente, gli racconto quattro fesserie, così a Pianosa non ci torno». E dopo che cosa è successo? La mamma: «L'hanno manipolato. Ecco che cosa è successo. L'hanno ipnotizzato». Scusi? «Ipnotizzato». E chi? «I giudici. Loro fanno 'ste cose, ipnotizzano le persone, quelle deboli come mio marito, le mezze tacche, i mezzi uomini. Io dico solo questo. Lui non ha voluto sentire sua moglie, la sua famiglia. E ora noi non vogliamo più saperne di lui». Il figlio: «Ha ragione. Non ci interessa più. Come se fosse morto. Un padre così non merita neanche d'essere rimpianto». Lei crede in Dio, signora? «Io sì. Sono una mamma di famiglia e l'ho insegnato ai miei figli». E allora perché non accetta il pentimento? «Ma quello non s'è pentito. Che c'entra! Quello per me accusa gente innocente. Il pentimento ha a che fare con la propria coscienza, è un travaglio che uno vive dentro di sé. Se uno ha commesso delle colpe e si pente e ne è convinto, allora si deve ammazzare. Ma non deve mandare in galera altre persone e rischiare la vita di altra gente. Guardi, lui dice di aver ucciso Libero Grassi assieme a un altro...». Assieme a chi? «A uno che non voglio neanche «A Pianosama resistee io allora nominare. Ma come fa a dire una cosa del genere? Quella mattina, lui era in casa, gli ho portato io il caffé a letto alle dieci e mezzo». E il negozio? «Andavano i miei figli ad aprirlo, tutte le mattine. Quello era uno sfaticato, dormiva fino a tardi. E anche quella mattina, lui era in casa, al calduccio nel suo letto, andrò dai giudici a dirlo, in tribunale». Suo marito si accusa di una cosa che non avrebbe fatto? «Proprio così. Lo fa per pazzia, o per vigliaccheria, che ne so. Per favore, non lo chiami mio marito». E perché? E perché non vuole saperne del perdono? «Nooo, che dice? Quale perdono? Per me è un altro uomo, sono io che mi sono sbagliata. Ho vissuto per 32 anni assieme a un'altra persona. Che ci posso fare? Gli errori si pagano. E ora divorzio. Io sono una madre che ha tre figli e deve badare a loro, a lui non ci voglio neanche più pensare, perché lui se n'è lavato le mani di noi». Così, da sette mesi, Giuseppina Mandarano è una donna m lutto, con i suoi vestiti in nero, con le sue parole di ghiaccio. Di suo marito non sa più niente. «Al divorzio ci pensa l'avvocato», dice. E il figlio: «La mamma ha ragione. Ha fatto bene a fare così». E lei, ancora: «Io ho capito che c'era qualcosa che non andava da quando l'avevano trasferito a Pianosa. Mi scriveva, mi diceva che stava bene, però una donna ha il sesto senso. Poi, quando l'ho rivisto a Rebibbia l'ultima volta ho capito che non mi ero sba- gliata». Che cosa gli ha detto prima di salutarlo? «Allora tu sei un bugiardo e io con un bugiardo non ci vengo. Questo gli ho detto». Ha mai ricevuto minacce? «No. E di che? Gliel'ho già detto. Mio marito è un pazzo, la gente ha compassione di me». E la mafia? «Scusi?» La mafia l'ha mai minacciata? «Ma quale mafia. Queste sono tutte fesserie. Da quando sono nata, io la mafia non l'ho mai vista. La mafia è a Roma, con i pezzi grossi nel governo. Qui a Palermo ci sono solo quelli che scrivono di mafia». Il figlio: «E' un'invenzione, la mafia. Tutta un'invenzione». Un'ultima cosa, signora: se volesse dire una parola, adesso, a suo marito, una qualsiasi, che cosa gli direbbe o gli manderebbe a dire? «Niente». Sicura, neanche una parola? Risponde il silenzio. Pina Mandarano non ascolta neppure. Pierangelo Sapegno «Ho chiesto il divorzio la sera in cui seppi che parlava e ho bruciato i suoi abiti e le sue fotografie lui è per me un pazzo che accusa gente innocente» «Doveva ritrattare pensando a me e ai suoi figli invece ha venduto la reputazione» A destra Rita Atria «A Pianosa è stato torturato ma resisteva in silenzio e io allora gli ero vicina» EU j.T ili Sopra il carcere di Pianosa, a sinistra i funerali dello imprenditore Libero Grassi, ucciso perché si rifiutava di pagare il racket

Luoghi citati: Livorno, Palermo, Rebibbia, Roma, Sicilia