I fantasmi del Melodramma di Masolino D'amico

Polemiche e accuse: mentre si avvia la grande stagione della lirica, ecco la storia della «sala all'italiana» Polemiche e accuse: mentre si avvia la grande stagione della lirica, ecco la storia della «sala all'italiana» /fantasmi Melodramma /V 1UANDO andiamo a teatro, 11 vediamo il teatro, o prestia11 ino attenzione soltanto allo 11 spettacolo? Ora che la stay Igione dell'opera le sta riaV prendo una dopo l'altra, è l'occasione per guardare con occhi nuovi le numerose e preziose sale «all'italiana» dei nostri Enti Lirici, con l'eccellente guida di un volume recente e dalle ingannevoli apparenze del libro-strenna, Grandi teatri italiani di Francesco Sforza (Editalia). Ripercorrendo per sommi capi la storia di questi edifici dal più antico, che è il San Carlo di Napoli, al più moderno, il Comunale di Cagliari non ancora ultimato, l'autore ha tante cose illuminanti da dire sulle società che ne determinarono le fisionomie e che continuarono incessantemente a modificarle. Nessun tipo di edificio pubblico è infatti meno stabile del teatro, che è anche il più atto ad andare distrutto per combustione, fenomeno consueto nei tempi andati ma non rarissimo nemmeno nei nostri, vedi il Petruzzelli di Bari. Non per nulla il nome La Fenice è fra i più diffusi per sale più o meno prontamente risorte dalle proprie ceneri; e non è un caso se di tutta la ricchissima attività teatrale del nostro Rinascimento sopravvivono solo tre luoghi tutto sommato atipici, l'Olimpico di Vicenza, il semidimenticato teatrino di Scamozzi a Sabbioneta, e il Farnese di Parma, mai più usato dopo il 1732. Antichissima, addirittura cinquecentesca, sarebbe anche La Pergola di Firenze, ma solo come luogo di rappresentazioni, che i locali in uso oggi risalgono alla metà del secolo scorso. Si inizia dunque col San Carlo, nato nel 1737 come annesso di una reggia che intendeva darsi la dignità competente alla più vasta città italiana nonché grande capitale europea. Come gli altri teatri prodotti dall'iniziativa privata, la sua costruzione fu rapida, 270 giorni (quando in seguito saranno le autorità comunali o statali ad accollarsi compiti analoghi, le operazioni dureranno decenni). La distribuzione dei posti all'interno rispecchiava le gerarchie della Corte, col re al centro, nel palco reale, e gli aristocratici a gareggiare per acquistare quelli più vicini, al second'ordine, che era l'equivalente del piano nobile delle case, e i ricchi borghesi e i professionisti al primo e al terzo; nella platea, prima riservata alla marmaglia in piedi, compaiono poltroncine munite di chiave. Il modello è quello di teatri più piccoli, come l'Argentina di Roma, ma qui le dimensioni sono dilatate a tal punto che i frequentatori si lamentano del fiacco suono dell'orchestra, prima che questa sia stata convenientemente rinforzata. Il carattere privato delle manifestazioni è sot- tolineato dall'assenza di facciata (i frequentatori privilegiati non hanno bisogno di comunicare al mondo l'esistenza del locale): questa sarà aggiunta per iniziativa di Murat. A lungo il San Carlo rimarrà uno dei grandi monumenti della città, tappa d'obbligo per i visitatori stranieri, fra cui fu Stendhal, che esaltandone quella che gli sembrò una comunione visibile di sovrano e popo¬ lo, definì la sala nel 1826, in tempi di costituzioni promesse, «un colpo di Stato». Al San Carlo in origine, come alla Scala, alla Fenice di Venezia e in tutti gli altri teatri lirici tradizionali, la platea era sormontata da ordinate file di palchetti le più alte delle quali con la progressiva democratizzazione del pubblico sarebbero state trasformate in loggioni. Indicativa anche la sorte del palco reale, che molti teatri successivamente abolirono e reintegrarono a seconda delle vicissitudini politiche: alla Scala per esempio in epoca napoleonica (1799) fu temporaneamente diviso in sei palchetti per «persone liberate». Questo teatro, destinato a diventare il più famoso d'Italia, era di costruzione recente, essendo stato inaugurato il 3 agosto 1778 con un'opera di Anto- nio Salieri, «Europa riconosciuta». Derivava il nome da S. Maria della Scala, una chiesa distrutta per fargli posto secondo una prassi in atto in molte città italiane e che segnala una cauta emancipazione dalle autorità ecclesiastiche in favore della nuova edilizia pubblica. La discreta facciata del Piermarini è inserita nel contesto urbano senza trionfalismi, e l'architetto accoglie volentieri le esigenze dei palchettisti, che vogliono un portico per le carrozze come al Regio di Torino, e dei nobili, che ottengono l'apposizione di un timpano sull'attico per rendere il tutto un po' più solenne. La sede della lirica diventa il luogo privilegiato dove si riunisce la crema della città ma anche un significativo campione del popolo: qui la musica di Verdi suscita entusiasmi risorgimentali. Il modello delle metropoli viene seguito anche nei centri più piccoli, e intorno alla metà dei secolo la Penisola si copre di minuscole repliche dei grandi teatri, con i loro palchetti pagati dai notabili del posto, gioiellini oggi spesso in fase di restauro, la cui destinazione a sede di tappa per compagnie di passaggio è sottolineata dall'assenza di locali per la produzione di spettacoli (sala prove, laboratorio di scenografia). Continuano, anche, le ristrutturazioni dei teatri maggiori, non senza romanticherie co¬ me la decorazione della Fenice (1854), improntata a un barocco dorato nostalgico di una venezianità ormai perduta. Nella seconda metà del secolo in tutta Europa il Teatro d'Opera diventa lo stentoreo monumento che la borghesia trionfante innalza a se stessa, esempio supremo il colonnoso, eccessivo Opera di Parigi ( 1875) di Garnier. Fu il sogno di imitare questo, e quello poco precedente di Vienna, a ispirare il magniloquente Massimo di Palermo, per la cui costruzione i Borboni prolungarono in un primo momento i dazi su sugna, zucchero e caffè. L'opera fu realizzata dopo la liberazione, e senza il concorso degli aristocratici, che come quelli di Roma qualche anno dopo si rifiutarono di acquistare i palchi per contribuire alle spese. L'edificio, che occupa una zona molto vasta (al solito, prendendo il posto di vari istituti religiosi) si propone come un vero tempio della vita civile, col suo solenne ingresso all'apice di una scalinata dominata da due leoni. La sua costruzione, ideata da G. B. Basile e portata a termine da suo figlio Ernesto (uno degli esponenti principali, questo, del Liberty italiano) richiese più di trent'anni, e i suoi risultati durarono relativamente poco, che il teatro com'è noto è chiuso per adeguamenti e restauri fino dal 1974. Altre città progettarono invano di imitare Palermo, ma fecero come Firenze, che quando fu capitale non riuscì che a adeguare gli interni della Pergola, corredandola di un pomposo foyer con marmi poco in carattere con l'esterno dimesso dell'edificio, il cui ingresso è distinto dal resto della strada quasi solo da una tettoia di ferro sul portone. Più che nella sala, che pur nei rifacimenti ha mantenuto la sua dignità, i legami di questo teatro col suo passato sono avvertibili nella tradizione dei suoi artigiani, vedi i famosi macchinisti fieri dei loro martelli antichi trasmessi da padre in figlio, o da maestro ad allievo. Il Novecento sostituisce all'idea del teatro come luogo di raccolta ed esibizione del civico decoro quella dell'adunata di massa. LArena di Verona, straordinario stadio che senza soluzione di continuità attraverso i secoli ha ospitato le manifestazioni più varie, accoglie la sua prima opera lirica, naturalmente Ì'<(Aida», nel 1913, e il successo è tale che la folla dà l'assalto ai botteghini e deve essere respinta dalle baionette dei soldati. Il fascismo progetta teatri enormi, per decine di migliaia di spettatori; ma quando si tratta di costruire un teatro dell'opera a Roma ci si contenta di adattare un politeama, in origine destinato all'arte varia, come il Costanzo D'altro canto, sia pure con le incredibili lentezze della moderna amministrazione pubblica, l'ideale del Grande Teatro d'Opera si mantiene anche ai nostri giorni, come fanno fede le tre ambiziose sale nate (o rinate completamente) nel dopoguerra, il Regio di Torino, il Carlo Felice di Genova e il succitato Comunale di Cagliari. Il primo, «trip» di un talento singolare e per qualche verso rétro come quello di Carlo Mollino, recupera i palchetti come sede dei nuovi aristocratici dell'industria, e per il resto si affida a fantasticherie private e sinuosità allusive al corpo femminile; il secondo mantiene l'aspetto neoclassico all'esterno, e per l'interno coniuga con Aldo Rossi la funzionalità ideale (massima visibilità e acustica ottimale da tutti i posti) con l'assurdo cattivo gusto delle pareti che imitano al chiuso una strada genovese, con balconi e finte finestre. Su Cagliari, in costruzione da ventanni, è presto per dare un giudizio. L'ambiente progettato da una terna di architetti bergamaschi sarà disponibile a più usi, il comfort degli spettatori sarà ottimale; l'esterno nella totale perdita di collegamento fra destinazione e funzione potrebbe essere, dalle fotografie, qualunque cosa, una stazione ferroviaria, un ministero o un supermarket. Masolino d'Amico mmm gftllElSii /fMr\Y-\ r\ o o r> r\ c^> — O J> > ) > • Uccidi CUuf Palchi reali e rivolta borghese