I fantasmi di Mosca e il trionfo dei logaritmi di Enzo Bettiza

Il grande romanzo di Bettiza visto da Ronchey Il grande romanzo di Bettiza visto da Ronchey I fantasmi di Mosca e il trionfo dei logaritmi UESTO grosso libro di 2007 pagine, al quale debbo la slogatura d'un polso nelle mie veglie not- tturne, è insieme un romanzo e un saggio. Anzi è una silloge di romanzi esistenziali e saggi psicoideologici, archeopolitici, antropologici, persino filologici. Ne potrebbe risultare diverso, poiché la sua complessità è quella del reale. La materia del plot è la storia del Komintern e del fenomeno bolscevico su scala planetaria, chein gran parte ha dominato il nostro secolo. 11 fenomeno è rivisitato, insieme, sia nella sua globalità sia nei suoi dettagli umani. Tutto è visto dalle stanze di quell'Hotel Lux, poi Gostiniza Centralnaja, che fu il tetto dei rivoluzionari di professione, i «fantasmi di Mosca» o come altri hanno detto «i catilinari della modernità». Ogni personaggio viene indagato nelle più disparate, riposte o immaginarie pulsioni, anche nei residui e cascami motivazionali che lo spingevano verso il mito comunista secondo Lenin o Stalin, Trockij o Rosa Luxemburg. L'autore, il mio amico Enzo Bettiza, fin dall'età più giovane formato nella logica di quell'/'w/e/ligencija, conosce bene la Russia, dove ha vissuto per lungo tempo assumendone un'ipersensibile conoscenza analitica. Ma insieme conosce la storia e la cultura della Mitteleuropa da viennese d'elezione, conosce i Balcani dalla Sava fino all'estuario del Danubio, il Baltico non meno che la Polonia dei luxemburghiani. E come alterità dinanzi a tutto questo conosce persino la Cina, che ha percorso più volte, ma che anzitutto ha studiato risalendo all'epoca del Kuomindan. L'autore dunque non solo è in grado di studiare da storico e filologo il composito mondo bolscevico degli Anni 30 e 40, ma sa immaginare i retroscena d'ogni cronaca o leggenda calandosi nei personaggi d'epoca per trattarli con viscerale affetto, anche se un po' come il biologo Jean Rostand che s'affezionava ai suoi girini e alle sue rane. Dell'io narrante, non so trovare una definizione migliore che chiamarlo un «illirico lirico», una talpa epistemologica e letteraria, che scava con minuzia ma pure con lirismo e con foga inventiva o surrealista. Ma siccome questa invenzione, mai arbitraria, fa tutt'uno con l'autore, posso ricordare che una sera di molti anni fa, dopo la presentazione del suo saggio su Lenin, gli fu rivolta una brusca e inattesa domanda: «Scusi, Bettiza, lei è bugiardo?». E lui, senza muover ciglio: «Bugiardo no, ecco, iperbolico». Il teatro degli eventi, anzi dei personaggi destinati a produrre o subire tragici e grandiosi eventi nell'epoca della Terza Internazionale, ha esercitato sempre un oscuro fascino su tutti noi stranieri, anche lontani dall'ideologia comunista. Il Lux era una leggenda nella leggenda. E per noi continuò a rappresentare, quasi alla pari con il Cremlino degli arcana imperii, il luogo dei misteri anche molto più tardi, quando si chiamava Gostiniza Centralnaja. Io ricordo ancora che tra la fine degli Anni 50 e i 60, superato lungo la Gorkij quel celebre luogo dove s'era tentato con orgoglio luciferino di catturare la storia di secoli futuri, si rallentava il passo e si diceva: «Ecco la casa dei fantasmi». Poi, svoltato l'angolo della Nemirovic-Dancenko per interrogare l'oracolo più spregiudicato del tempo in casa sua, parlo di Il'ja Erenburg, la conversazione ai apriva e chiudeva sempre sullo stesso tema, il Lux, Dimitrov, Kuusinen, Kolarov, To- gliatti, Fisher, Pieck, Ulbricht, Angaretisegli altri. Nei primi anni del dopo Stalin,, quand'ero corrispondente a Mosca per ìm Stampa, al posto che poi sarebbe stato di Bettiza e lui lavorava per lo stesso giornale a Vienna, assistevamo dai due diversi osservatori alle oscillazioni della politica dei blocchi. Allora, fra l'altro, quasi ogni disgelo da summit fortunato s'alternava con un rigelo ila summit abortito. Per esempio ricordo quell'incontro viennese che al Ccntralnyj Telegrafili Mosca, dove aspettavamo la censura, suscitò subito uno scettico e memorabile commento: «Incontro a Vindobòna/ fra Kennedy e Kruscev. / A tutti un frigorifero / e un romanzo di Kocctòv». Allora, dopo i primi sputniki, l'Urss appariva come la potenza tecnologica e scientifica egemone. Invece no. Alle spalle di Mosca, Kiev e Leningrado, l'Urss era paurosamente arretrata. La superpotenza, il gigante militare, aveva piedi d'argilla. Bastava scrutare in ogni luogo l'arretratezza, lungo la Transiberiana e la Volga o nell'Asia Centrale da Taskent a Karaganda. L'Urss era arretrata nella chimica dei polimeri, che detronizzava la già venerata siderurgia staliniana, così come nell'elettronica o nella bioingegneria genetica, che preannunciavano subalternità tecnica e indigenza con la crisi agraria dovuta fra l'altro a! ritardo incolmabile dopo l'autoesclusione dalla «rivoluzione verde». Eppure, non pochi allora prestavano fede all'apparente ascesa dell'Urss nella temeraria sfida produttiva rispetto agli Ctati Uniti, paradossale come portare vasi a Samo o Samovar a Tuia. Decadeva l'ideologia, ma sembrava prevalere la tecnologia dell'imperioso e onnipotente Gosplan. Lo scenario poteva suggerire persino versi di compianto per l'estinzione dei liriki dinanzi al trionfo dei fistia: «I fisici hanno il vanto / e i lirici stanno in un canto. / Appassiscono i nostri ritmi / e la grandezza a poco a poco / si rifugia nei logaritmi». Invece no. Proprio in quegli anni dai boschi di Rjazan emergeva il prodigio della letteratura e della storiografia granderussa, il più sorprendente o scandaloso nel nostro secolo, Aleksàndr Solzhenìtsyn. Fu proprio allora che il mio amico Bettiza giunse a Mosca, dalla sua Vienna, e per cominciare volle tradurre Una giornata di Ivan Denisovic, prima testimonianza pubblica sul Gulag, sul passato e sui misteri del passato. In seguito, non ha interrotto mai la sua ricerca retrospettiva. Infatti pare che da quel momento abbia letto, studiato e immaginato tutto sul tragico e grandioso tema, fino all'inesausta stesura e ristesura di queste 2007 pagine, una inquisitive fiction senza paragone, un'opera postmoderna quasi ventennale, che se non fosse scritta in forma di romanzo potrebbe continuare fino alla caduta dell'impero e ricordare l'immane fatica del Gibbon. Ora, insieme con l'interesse per questa romanzesca e psicoanalitica storia, un frutto succoso cresciuto sul duro nocciolo costituito dai fatti del secolo, almeno per me tuttavia si moltiplicano gli interrogativi sul futuro. E poi? A questo punto spero che un giorno, presto, ci ritroveremo in Russia magari insieme per tentare qualche pronostico sugli eventi futuri, benché sia forse un compito superiore alle capacità di chi ha già troppo visto dei tempi. Ma lo spero, dopo tutto è il nostro vero mestiere. Si deve obbedire al mestiere, come recita il frate cronista del Boris Godunov: «Ancora un ultimo racconto / e la mia cronaca è finita...». Esciò oc/nò poslèdnie, skazànie I i letopis okòncena mojà... Alberto Ronchey ROMA. Enzo Bettiza ha presentato ieri, all'Università La Sapienza, il suo romanzo «I fantasmi di Mosca» (Mondadori), con Saverio Verterne, Lucio Colletti e Alberto Ronchey, Pubblichiamo l'intervento del ministro. Enzo Bettiza