Dipingi su pellicola di Marco Vallora

Dipingi su pellicola Foto d'artista, da Magritte a Man Ray a Mapplethorpe Dipingi su pellicola L'occhio bianconero delle avanguardie EA grande retrospettiva di Ugo Mulas a Roma, il decano. Lee Miller all'Alinari di Firenze, la dandystica compagna di Man Ray, che da sofisticata ritrattista della bella società americana si fa ardita reporter di guerra e di morte. A Milano, l'esteta grecoteutonico Herbert List, poi la «scoperta» di Marialba Russo, che nel crudo bianco e nero della natura abbandonata e dell'archeologia insepolta capta una magnetica forza allarmante, quasi spiritica. Infine la Biennale di Torino e le infuocate Stanze d'amore di Faucon al Centro Franco-italiano, il pittore-fotografo esoterico Emanuele Cavalli all'Arco Farnese di Roma. Dovunque si moltiplicano occasioni felici di apprezzare la fotografia come fenomeno d'arte tout court: con un'intensità di proposte, anzi, che rende impossibile riferirne come meriterebbe. Del resto già in occasione della deludente ultima Biennale veneziana si è osservato come forse soltanto la fotografia, nella sezione curata da Quintavalle, era riuscita, in mezzo a tanta paccottiglia, a proporre qualche rara proposta interessante e nuova. Non è possibile, dunque, passare sotto silenzio l'interessante manifestazione al Castello di Rivoli Da Brancusi a Boltanski, che si occupa essenzialmente di Fotografie d'artisti, cioè di protagonisti della pittura (come Man Ray o Bellmer) della scultura (come Brancusi) o di registi affermati come Bresson, che si sono dedicati anche alla fotografia: oppure di artisti contemporanei, come Annette Messager, Alain Fleischer, Christian Boltanski, che hanno per lo più abbandonato la pittura tradizionale per usare la pellicola come supporto della loro espressione artistica. Nel documentato catalogo Charta, oltre a raccontare i problemi francesi connessi alla costituzione di una nuova collezione museale di fotografia d'arte (noi questi problemi nemmeno ce li poniamo in via astratta), Alain Sayag sottolinea l'evoluzione di un'arte che dalla volontà nadariana di documentazione fedele è passata alla velleità baudeleriana di potersi aprire al «campo dell'impalpabile e dell'immaginario». Insomma, una fotografia che vuol vedere «di più» dello sguardo, andare al di là della visione realistica. E se ormai ci sono piuttosto familiari le solarizzazioni di Man Ray, o le nottambule scene di caffè parigini di Brassai, le splendide materializzazioni luminose delle superfici impermeabili di Brancusi, che documenta il proprio lavoro in fieri, od i fotomontaggi geometricodadà di Hausmann, ci sorprenderanno i meno noti paesaggi alla Magritte di Boiffard, che illustrò la Nadja di Breton, con i suoi rocchetti-paesaggio, oppure le radici antropomorfe di Lucien Lorette, le dróleries mitologiche di Dora Maar, amica di Picasso, o le stanze bùnueliane di Ubac, attraversate da filamenti visionari. Con la pessimistica convinzione che davvero le avanguardie storiche hanno sperimentato di tutto, e che oggi, via via, non si vada altro che dissipando il talento depressivo dell'eterno, sconfortante déjà vu. Al contrario, anche se lo si rivede per l'ennesima volta, il grandissimo Mapplethorpe, cui il Museo Pecci di Prato dedica, sino al 7 gennaio, una imperiale retrospetti- va curata da Germano Celant, che gli riserva un concettoso saggio nell'elegante volume Electa, non smette mai di emozionare. Un'emozione fredda, paradossalmente rinascimentale, dionisiacamente funerea, pur senza bisogno di raggiungere quegli ultimi, spettrali autoritratti di fauno succhiato dall'Aids, con il suggello provocante della canna dal manico ornato di un teschio ghignante, o quella straziante striscia delle sole pupille ritagliate ed abitate dallo spettro della fine pulsante. Incredibile che si siano ripetute le solite litanie dello scandalo, della volontà di censura, perché Mapplethorpe mostra, con sfrontato candore, anatomie perentorie e figure disinibite del suo dizionario apparentemente pornografico. «Cerco la perfezione nella forma. Lo faccio con i ritratti, con i sessi, con i fiori»: e spesso i suoi fiori sono ancora i più torbidi ed imbarazzanti. «Lavoro nella tradizione dell'arte» sosteneva, lui che citava continuamente nelle plastiche pose dei suoi modelli Michelangelo. Flandrin e forse Von Gloden, «per me il sesso è uno dei gesti artistici più alti». E ancora: «Non credo che esista qualcuno che comprenda la sessualità. Di che si tratta? Qualcosa di sconosciuto, dunque così eccitante». Ma tutto fuorché eccitanti, pruriginose sono le sue immagini nude, sculture di carne e di pietra (e lui stesso sottolineava «la fotografia è scultura portata alla perfezione»). Sono, i suoi nudi, architetture pierfrancescane, proiezioni brunelleschiane di muscoli e sessi: difficile trovare qualcosa di più misurato e fantastico di quell'ombelico annebbiato nel nulla della culturista Lisa Lyon. E se qualcuno volesse ancora mostrare qualche pudore ipocrita, che dire di fronte ai ritratti infallibili della Bourgeois, dell'attore Sutherland, delle orchidee che sfidano il kitsch del colore-cartolina? Marco Vallora A sin. una foto di Man Ray; sopra e a fianco un nudo e Picasso di Lee Miller

Luoghi citati: Firenze, Milano, Prato, Rivoli, Roma, Torino