JFK il sogno assassinato

ULMA COLI Trent'anni fa: la testimonianza del nostro inviato a Dallas JFK < // sogno SI N Italia la notizia la diede il I tg della sera. «Il presidente 1 Kennedy è rimasto graveI mente ferito in un attenta_*Jto, a Dallas», scandì Gigi Carrai leggendo un flash dell'Afta. In chiusura del notiziario: «E' morto, aveva 46 anni», annunciò. Poi, grazie al satellite Telstar 1, ci fu la prima trasmissione di immagini in diretta da Dallas. A commentarle, Tito Stagno. Infine Bernabei decise che tutti gli altri programmi non sarebbero andati in onda. In segno di lutto, musica sacra. Era il 22 novembre 1963, un venerdì. La notizia dell'assassinio di John Fitzgerald Kennedy (JFK) cortocircuitò la brava gggente, con tre g. Sono passati trent'anni ma il torinese signor Manna, ad esempio, non ha dimenticato quell'annuncio di morte. «Stavo mangiando degli spinaci davanti alla tv. La notizia mi strozzò il boccone in gola. E' come fosse stato ieri», dice. A Dallas, quel giorno, uno strascico di «estate indiana» regalava il sole. Un temporale aveva inondato la notte sicché il clima era mite, persino dolciastro. «Era una gran giornata», dirà ai giornalisti, quattro giorni dopo l'assassinio, John Connally, il governatore del Texas che viaggiava nell'automobile di Kennedy, e rimase ferito. Lo dirà dal suo letto d'ospedale, in una conferenza stampa: «Era una gran giornata. Già la folla era stata grande a Fort ' . Worth: a Dallas fummo travolti dall'entusiasmo. Mia moglie, in Elm Street, si volse verso Kennedy e gli disse: "Mister President, non potrà dire che la popolazione di Dallas non le voglia bene e non l'ammiri". Kennedy si chinò verso mia moglie e le disse: "Certo che no, signora Connally"». Pochi attimi e schioccò il primo sparo. JFK si abbatté in avanti, silenziosamente. Mentre Connally volgeva il capo a sinistra venne colpito anche lui: «Mio Dio - gridò -, qui ci ammazzano tutti». Ci fu il terzo sparo e il Presidente si arrovesciò all'indietro, colpito di nuovo. «Oh my God, me l'hanno ucciso», urlò Jacqueline Kennedy istintivamente gettandosi sul cofano della Lincoln convertibile, sei posti, azzurrina, quasi volesse raccogliere la calotta cranica del marito. Rufus Youngblood, 29 anni, agente del Secret Service, saltò sulla vettura, spinse sul fondo dell'auto Jacqueline e con le braccia allargate si gettò su di lei e sul Presidente per far loro da scudo; intanto gridava all'autista di correre all'ospedale. La testa straziata del marito fra le mani, Jacqueline gemeva: «Jack... Jack». Nel volger di sette secondi la grande gioia s'era mutata in una grande tragedia. Al Parkland Hospital l'arrivo della limousine presidenziale scatenò il caos. JFK respira. A fatica ma respira. L'equipe medica diretta dal dr. Malcolm Perry rileva, però, un encefalogramma piatto e tuttavia pasticcia con trasfusioni, tracheotomia, massaggio cardiaco. Nel corridoio dell'astanteria gli agenti penavano ad aver ragione dei fotografi, dei reporters. Una infermiera sbarrò isterica il passo a Jacqueline. «Sono la moglie del Presidente, debbo entrare», gridò quella. «Qui non entra nessuno, è il regolamento», gridò a sua volta l'infermiera e poiché Jacqueline tentava di scostarla, le piazzò due pugni nel ventre. Il tailleur rosa di Jacqueline era lordo del sangue di suo marito. Il rimmel sciolto dalle lacrime le rigava il viso così come in Sudan le donne colpite da un lutto subitaneo fanno con un pezzo di sughero affumicato. Ad ore 13 (locali) del 22 di novembre il dr. Malcolm Perry comunica a Jacqueline che suo marito, John Fitzgerald Kennedy, il Presidente della Nuova Frontiera, è morto. Non è passata neanche un'ora e arrestano Lee Harvey Oswald. Setacciando l'edificio dal quale sarebbero partiti i colpi, il Deposito comunale di libri, la polizia accerta che manca uno dei dipendenti, Oswald appunto. «A tutte le auto: fermare un uomo bianco, sui trenta, capelli castani, altezza 1,74 circa. Attenzione: potrebbe essere ar- mato». Lo è e spara, uccidendolo, addosso al poliziotto J. D. Tippit che lo aveva fermato. Spara con una Smith & Wesson calibro 38, quasi davanti al cinema Texas dove proiettano un film di guerra e dove Oswald entra, dopo aver pagato il biglietto, sedendosi in quarta fila, prossimo all'uscita di sicurezza. E' nel cinema che l'arrestano. Messo sotto torchio, Oswald nega. Tutto. Ma saltano fuori, in rapida successione, una sua fotografia in cui quel ragazzo di 24 anni («Ex marine - tiratore scelto - filocomunista, filocastrista, recatosi in Urss "per fede" e, stranamente, rientrato negli Usa con una moglie russa») brandisce un fucile Carcano calibro 6,5 identico a quello trovato al sesto piano del Deposito. Di più: l'Fbi sciorina un'impronta digitale di Oswald rimasta sul fucile; fili della sua camicia rinvenuti nell'otturatore dell'arma e la mappa del percorso presidenziale, segnata col pennarello. Ce n'è d'avanzo perché il capo della polizia di Dallas, Will Fritz, possa dire ai giornalisti: «E' lui l'assassino. Il caso è chiuso». (Il personaggio Oswald rimane un mistero. Potrebbe avere sparato lui, ma continuo a pensare che non fosse solo quel maledetto venerdì). Alle 4 del mattino del 23 di novembre, l'Attorney General (ministro della Giustizia), Robert F. Kennedy, rese l'ultimo saluto a suo fratello il Presidente. Quelli delle pompe funebri avevano fatto, poveracci, del loro meglio, ma JFK «sembrava un pupazzo di plastica», sicché Bob ordinò che la bara venisse esposta nella East Room chiusa. «Non debbono vederlo così ridotto», disse. Era distrutto dalla pena, Bob. Charles Spalding, un vecchio amico, lo costrinse a cercar di dormire qualche ora. Gli porse un tranquillante e Bob: «Dio, è terribile», sospirò. «E pensare che le cose sembravano essersi messe bene, avrebbe vinto anche il secondo mandato». Da dietro la porta della Lincoln Room, Spalding udì R.F.K. singhiozzare: «Perché, mio Dio?». Bob e lo stesso JFK temevano la trasferta elettorale di Dallas. Alla vigilia, vennero distribuiti, nella arrogante «Big D», manifestini con la fotografia del Presidente e la scritta «ricercato per tradimento». L'ex generale Edwin Walker, trombato alle elezioni per governatore, espose la bandiera a mezz'asta e capovolta «contro il bastardo irlandese papista». La mattina del delitto, sul Dallas Morning News comparve un annuncio a tutta pagina, pagato dal signor Bernard Weissman che accusava JFK di collusione con Gus Hall, leader del p.c. americano. Ricca, orgogliosa, sbruffona eppur raffinata, nell'aprile del 1963 Dallas bastonò Adlay Stevenson interrompendone il comizio. Il «maitre à penser» di Dallas fu sempre John Wayne, nella «Big D» prosperava la John Birch Society, dichiaratamente nazifascista. Nel 1961 la «Lega giovanile» era riuscita a impedire una mostra di Picasso, «artista politicamente inquinato». E c'erano «sospetti fondati» che la lunga mano di Jimmy Hoffa stringesse quella della mafia locale al Carousel, un night club gestito da Eva Rubenstein e da suo fratello Sparky (al secolo Jacob Rubenstein). Il quale altri non è se non quel Jack Ruby che, indisturbato, ucciderà Oswald negli scantinati della polizia di Dallas mentre due agenti conducono «l'assassino ufficiale» di JFK verso il furgone dei carcere della Contea. (Per inciso, Oswald morirà senza aver potuto parlare col suo avvocato, nonostante implorasse questo diritto). Nel Ì963 l'America è in pieno be- nessere, conosce il baby boom, Kennedy e Papa Giovanni lavorano per la distensione, l'iroso Krusciov contadino rispetta il Presidente bostoniano. (In Italia sboccia piano la grande illusione del centro-sinistra). Forte d'un brain trust d'eccezione, JFK pensa a un «capitalismo illuminato», capisce quale spaventosa mina vagante sia il sottosviluppo, sposa il diritto dei neri all'autodeterminazione. In quel tempo lontano io ero, mi sentivo «kennedyano», al pari di una sterminata legione di giovani usciti dalla Resistenza affamati soprattutto di libertà, decisi a lavorar sodo, ognuno a suo modo e nel suo campo, per quella «alleanza per 0 progresso» vaticinata da JFK. Sicché fu crudele, invero, per me, una volta giunto a Dallas (il mio primo servizio da inviato per La Stampa), scoprire come soltanto uno sparuto gruppo di persone piangesse la giovinezza perduta di Camelot. Il reverendo metodista William A. Holmes mi disse di aver assistito sgomento allo spettacolo di giovinotti e bambini che lanciavano in aria il berretto e gridavano «evviva» apprendendo la morte di JFK. Interrogando la memoria, scorrendo il mio taccuino d'allora, posso scrivere che c'era, tuttavia, chi piangeva Lancillotto. Là dove Kennedy è stato ucciso, la Main Street finisce e comincia la Stemmons Freeway; ai lati della strada che va in discesa si aprono due larghi prati. Sull'erba verde la pietà da pochi ha improvvisato un modesto sacrario. Ecco un nero alto e grosso, con due bambini, uno per mano. Indossa la divisa da autista di bus, i bambini vestono di bianco come nelle più tenere iconografie sudiste. Tutti e tre posano sullo sfondo d'una croce di fiori rossi. «Ho voluto portare qui i bambini a fotografarmi con loro perché da adulti possano ricordarsi meglio d'uno dei più spaventosi delitti della storia, che ha privato il mondo d'un grande uomo, libero, generoso», dice il nero. Accanto a una corona di fiori gialli, un mucchietto di lettere. In una c'è scritto: «Gli Stati Uniti han perso il presidente, io ho perduto un fratello». Firmato: John L. Block. Nel giorno del Ringraziamento del Signore, qualcuno ha suonato alla porta del signor Block, a Oak Cliff, il quartiere dove abitava Lee Harwey Oswald. Il signor Block ha aperto e gli son piombati addosso in due: trauma cranico, frattura della mascella, sette costole sfondate. A Fort Worth, l'agente R.M. Barnes si alterna col sergente J.W. Stout alla guardia del tumulo che copre i resti di Oswald. Il sergente mi dice che sono già stati raccolti 11 mila dollari per erigere «una bella tomba» a Oswald. Come se lo spiega? «Questo è un Paese libero», risponde. Lo è veramente, se ha privato Oswald dell'assistenza legale? «Shit». Con un po' di dollari dati alla persona giusta, riuscii a intervistare la madre di Oswald, a Fort Worth. Abitava un miserabile «duplex» al 2220 di Thomas Place. Quattro agenti del Secret Service assisteranno all'intervista, prendendo appunti, stravaccati sul letto della signora Marguerite. La madre di Oswald è una donna animosa, coi capelli male ossigenati, eccessivamente truccata. Si esprime con proprietà di linguaggio, con una disarmante punta di snobismo. «Ho cercato di dare al mio Lee un'educazione consona alla nostra condizione sociale (upper class, dice). Siamo una distinta famiglia luterana, anche nei momenti più difficili abbiamo difeso la nostra dignità. (...) Credo néìl'american way of life perciò dico ch'è una vergogna affermare, come fa il capo della polizia, che l'assassino del presidente è mio figlio. Solo un dibattito pubblico avrebbe potuto chiarire la posizione di Lee. Ebbene, lo hanno ucciso, non ha potuto avere il suo processo, la sua colpevolezza non è stata provata. In carcere, poche ore prima che l'ammazzassero sotto gli occhi di tutto 0 mondo, mi disse: "Mamma sono innocente". Ho il dovere di credergli: come madre ma soprattutto come cittadina americana». Sono passati trent'anni e i giornali americani scrivono che il caso, per milioni e milioni di persone, rimane aperto. Certamente l'assassinio di Lee H. Oswald fu un bel regalo di Natale per Hoover, il capo dell'Fbi. D'altra parte, lo stesso Robert F. Kennedy spense a uno a uno i mille interrogativi sull'assassinio di JFK: «Tanto, sia come sia, Jack non tornerà più». Grazie a mio fratello Mirco, giornalista a New York, ebbi modo, un giorno, di parlare privatamente con Robert F. Kennedy. Mi disse che fra gli innumerevoli messaggi di cordoglio ricevuti, lo aveva colpito il brano della lettera di San Paolo a Timòteo, trascritto da un sacerdote di Minneapolis: «Ho combattuto la buona battaglia. Ho terminato la mia corsa. Ho conservato la fede. E' giunto il momento di sciogliere le vele». Era il 15 di novembre del 1967. Meno di un anno dopo, il 4 di giugno del 1968, ammazzarono pure lui, Bob. Due mesi prima era toccato a Martin Luther King. Sono passati trent'anni dalla morte oscura di Lancillotto. Addosso a Camelot hanno rovesciato tonnellate di spazzatura, tuttavia se ci contassimo scopriremmo in tanti, proprio in tanti nel mondo, d'essere tuttora «kennedyani». Pateticamente? Forse. «Ci salveremo perché abbiamo paura», ha scritto un vecchio poeta del Sud. Igor Man ULMA COLI 318 19 ':V:''-':-;;:::::'::J::':;^:::;:::r:;;;:^:::::-:v::::::::;r. LA STAMPA rent'anni fa: la testimonianza del nostro inviato a Dallas JFK < // sogno Nella foto grande: nedy nel '61 a New York. In alto a destra un momento dell'attentato La Ford bianca gui data dal capo della polizia Curry Il disegno illustra le due ipotesi sul delitto. PRIMA IPOTESI: Oswald (1) è il solo attentatore. Un testimone (3) lo vede sparare tre volte contro l'auto presidenziale in movimento, mentre un cineamatore (2) riprende, con notevole sangue freddo, la scena. Kennedy è colpito da due proiettili, uno dei quali ferisce anche il governatore Connally. SECONDA IPOTESI: Oswald colpisce una sola volta Kennedy. La pallottola mortale è sparata da un secondo attentatore, nascosto nel poggio erboso (4). Nella foto grande: Kennedy nel '61 a New York. In alto a destra un momento dell'attentato