nei paradisi artificiali dei miliardari comunisti

liei paradisi artificiali dei miliardari comunisti Dagli esperimenti delle regioni «speciali» al capitalismo rosso del 2000 liei paradisi artificiali dei miliardari comunisti LALUNGA MARCIA VERSO IL MERCATO vA PECHINO prima vista può sembrare un fatto strano, eccentrico, quasi . minore. Ma, al " di là dell'enfasi che riafferma con forza apodittica la linea denghista del «mercato socialista» e della perseverante apertura della Cina ai traffici mondiali, è la questione fiscale il punto politicamente più importante e più delicato che emerge dal documento appena elaborato dal plenum del comitato del partito comunista cinese. Il nuovo decalogo in realtà fa leva su un solo comandamento: non evadere le tasse. Il resto è scontata retorica riformistica. E' su questo invito o precetto fiscale accentratore, apparentemente secondario, che, a quattordici anni dal decollo, si chiude quasi in sordina la prima fase ormai consolidata della grande riforma economica denghista che in meno di tre lustri ha cambiato il volto della Cina, la vita di un miliardo e trecento milioni di cinesi, gli equilibri politici nell'Estremo Oriente asiatico e potenzialmente nel mondo intero. Dalla prima fase della riforma, i cui straordinari e quasi violenti benefici si scorgono a occhio nudo ovunque (nelle strade sempre più colorate, nelle campagne ordinate e feconde, nei lindi locali della disciplinata e didattica Borsa di Shanghai, nei richiami luminosi dei ristoranti e delle discoteche, nei colossali progetti industriali e infrastrutturali delle zone franche «speciali», nei negozi ejiei mercati rigurgitanti di merci e di derratr alimentari) la Cina si prepara ora a passare con nuovi strumenti di controllo e di freno alla seconda e più perigliosa fase di questa sua eccezionale rivoluzione neocapitalistica segnata insieme dal benessere, dalla prosperità, e da un turgore disordinato e spesso caotico. La cerniera fiscale dovrebbe costituire il mastice del nuovo ciclo. Finora l'autoritario sistema cinese, rinunciando al comunismo ma non al partito comunista, reprimendo la libertà politica ma stimolando quella economica, scoraggiando le iniziative democratiche ma pungolando le più disparate iniziative imprenditoriali, aveva dato via libera a un «laissez-faire» primigenio, a tratti selvaggio, di stampo più ottocentesco che novecentesco. Nella scia dell'irruente miracolo economico, emerso quasi da un giorno all'altro, con tipica imprevedibilità cinese, dalle tenebre medioevali della rivoluzine culturale maoista, il sistema denghista aveva non solo trasformato decine di migliaia di poveri contadini in piccoli proprietari terrieri, in piccoli artigiani, addirittura in piccoli imprenditori; ma aveva perfino contribuito a tramutare tanti funzionari del partito e ufficiali dell'esercito in ricchi commercianti, industriali. sensali d'affari. La corruzione, una particolare e tradizionale forma di corruzione asiatica, sinuosa, dinamica, mobilissima, era stata l'inevitabile frutto tossico dell'implosione economicistica del comunismo e aveva contribuito anch'essa, per la sua parte, alla creazione e alla diffusione del «miracolo cinese». E' nell'intraprendenza più sfrenata, e nella corruzione per così dire creativa derivante, che alcune province dell'impero denghista si sono arricchite più di altre, instaurando feudi e dinastie locali, esazioni fiscali locali, prospettive e progetti di sviluppo locali in crescente contrasto con l'evoluzione economica e sociale di regioni meno favorite e più lontane dal soffio fecondatore del Pacifico. Tipico il caso della ricchissima provincia meridionale di Guangdong, con capitale Canton, fornita di un «porto aperto» come Shantou e di una «zona franca speciale» dinamicissima come Shenzhen, bagnata dall'Oceano e attraversata dal trafficato Fiume delle Perle: ottanta milioni di abitanti beneficati dal miracolo, quasi uno Stato autonomo, quasi una California asiatica che si farà ancora più ricca, più turgida, più ingombrante per Pechino il giorno in cui (rispettivamente nel 1997 e nel 1999) Hong Kong e Macao diventeranno di fatto suoi propulsivi satelliti imprenditoriali e mercantili. L'esempio di Guangdong s'è fatto negli ultimi due-tre anni sempre più contagioso e più insidioso. Il braccio di ferro fiscale con Pechino è stato fino a ieri all'ordine del giorno: le autorità locali, il partito locale, l'esercito locale, il quale gestisce fiorenti attività commerciali, rifiutavano sistematicamente di far affluire una ragionevole quota fiscale a Pechino trattenendo la parte grassa delle tasse nel forziere erariale di Canton. L'indebolimento dello Stato centrale è un antico spauracchio nella storia- millenaria della Cina. Già Schumpeter aveva notato che uno dei punti più vulnerabili nell'organizzazione dello Stato cinese era la sua scarsa efficienza in quanto «Stato fiscale». Lo spauracchio si è rifatto vivo con minacciosa corposità, emergendo dai secoli bui delle apocalittiche disgregazioni dinastiche dei Ming e dei Qing, nel momento in cui il governo pechinese si è ac- corto che la decentralizzazione del potere economico ha pericolosamente svuotato le sue casse, riducendole al 19 per cento del prodotto lordo nazionale rispetto al 34 per cento del 1979. La guerra fiscale in atto con le province arricchite, percorse da fremiti secessionistici, è di fatto una guerra politica tra il centro impoverito e la periferia benestante. Ne va di mezzo non solo l'armonia dello sviluppo economico, ma l'unità amministrativa di un subcontinente che contiene un quinto dell'umanità planetaria. Il gap fiscale, o peggio l'insubordinazione fiscale contro Pechino di regioni affluenti come il Guangdong o 10 Zhejiang, potrebbero rivelarsi disastrosi in coincidenza con la morte, forse imminente, dell'ottantanovenne e tuttora potente Deng Xiaoping. 11 disastro della disgregazione: fenomeno ciclico che la storia cinese ha sperimentato così nei secoli lontani come nel secolo attuale, e che l'esempio negativo e vicino del crollo imperiale sovietico fa apparire come il massimo dei mali agli occhi della preoccupata nomenklatura comunista di Pechino. Insomma, la questione fiscale, posta al centro del «decalogo» uscito dal plenum, nonostante le apparenze è tutt'altro che secondaria o venale. Il problema va ben oltre le tasse e la liquidità delle casse governative. Investe in pieno la stabilità, la compattezza, la continuità geopolitica interna del continente disarmonicamente arricchito e stravolto dalla più esplosiva delle sue cicliche implosioni. L'allarme, già prima del plenum comunista, era stato lanciato in settembre dall'Accademia cinese delle scienze sociali che aveva puntato il dito su un sistema fiscale definito «estremamente fluido». I politici, secondo il rapporto dell'Accademia, non avrebbero colto appieno il rischio ine- rente al rapido impoverimento e declino di potere del governo centrale. Nel testo si indicava apertamente il pericolo di una ricaduta nella parcellizzazione feudale «stile Anni Venti» e si alludeva che la Cina, al momento della scomparsa dell'«uomo forte» (Deng), avrebbe potuto «sprofondare dal collasso economico nel collasso politico e scomporsi infine nella disgregazione». Così, la prima fase della terza rivoluzione cinese termina, da un lato, con un miracolo diffuso e compiuto e, dall'altro, si schiude su una seconda fase impervia, piena di tensioni e di incognite. Gli specialisti americani, sempre accurati nelle loro analisi sinologiche, hanno fotografato l'attuale situazione con un neologismo quanto mai calzante: «economie warlordism», ovvero «economia da signori della guerra». La verità è che, in una situazione storica del genere, che vede più d'un miliardo di uomini proiettati dall'arretratezza assoluta (si pensi alla miseria anche economica della rivoluzione culturale) nel vortice simultaneo di una rivoluzione insieme industriale e tecnologica, insieme ottocentesca e novecentesca, soltanto un governo forte, un fisco severo, una strategia di sviluppo equa e armoniosa riusciranno a conservare gli enormi successi conseguiti dalla Cina in appena quindici anni e a preservarla dalla tentazione endemica del caos. Il miracolo cinese, intendiamoci, c'è, ed è sostanzioso, capillare, già radicato nelle arterie profonde del Paese. Quel che ancora gli manca, per durare nel tempo e nello spazio, e per approdare indenne al Duemila, è l'ordine nella modernità. Ovvero, per dirla alla cinese, «la legge dell'armonia nel tumulto delle quattro modernizzazioni». Enzo Bettiza L'unica incognita è la salute di Deng (quasi 90 anni) Pechino lancia la guerra fiscale contro le province v"d : i Il primo ministro cinese Li Peng figlio adottivo di Ciu En Lai Nella Cina di Deng (foto sotto) e del boom economico c'è ancora spazio per i venditori di palloncini in bicicletta [foto damilo de marco]

Persone citate: Deng Xiaoping, Enzo Bettiza, Qing, Schumpeter