« Così riuscii a catturarlo»

« « Così riuscii a catturarlo» Il giudice Turone e il blitz nel 74 «Un vero capo, a volte geniale» MILANO. Giuliano Turone è un magistrato della procura nazionale antimafia. Diciannove anni fa era giudice istruttore a Milano. Fu lui ad arrestare Luciano Liggio, o Leggio, come si chiamava per l'anagrafe. Si ricorda, dottor Turone? «Mi ricordo perfettamente, come se fosse ieri. Arrivammo a lui indagando sui sequestri Torielli e Rossi di Montelera. Nel '73, in una cascina vicino a Treviglio, trovammo Rossi di Montelera, sequestrato e, rinchiuso in una stanza sotterranea della stalla. In quella cascina trovammo molti elementi che portavano alle cosche del Nord Italia, e a Luciano Liggio. C'erano pure alcune bottiglie di champagne che avevano un'etichetta di un'azienda vinicola milanese, Borroni, il cui titolare era un certo Antonio Fauggia. Fauggia, scoprimmo poi, era in realtà Liggio». Qual era l'immagine di Liggio in quegli anni? «Un imprendibile totale, era universalmente noto come la "primula rossa" di Corleone. Sapevamo che era il capo della mafia siciliana, anche se allora non c'erano idee chiare sulle cosche. Il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso sarebbe arrivato solo alcuni anni più tardi, nell'82». Lei fece arrestare Liggio quasi vent'anni fa, il 16 maggio '74. Fu lei, in un certo senso, ad aprirgli le porte del carcere... «Casomai gli chiusi le porte di San Vittore». Dottor Turone, ricorda il primo incontro in carcere con Liggio? «Sì, andò proprio come me lo immaginavo. Aveva un atteg- ?iamento da vero capomafia, ormalmente rispettoso nei confronti di chi rappresentava lo Stato». Come percepì questa sensazione? «Quando entrai nella stanza degli interrogatori Liggio si alzò in piedi e mi salutò con rispetto». E durante l'interrogatorio? «Sembrava non preoccuparsi per il fatto che le sue risposte erano inverosimili. Contro di lui, infatti, c'erano una montagna di prove, aveva sulle spalle già una condanna all'ergastolo per l'omicidio Navarca». Negli anni successivi l'immagine di Liggio si è arricchita anche di altri aspetti: la pittura, l'arte, la poesia. Era un uomo colto? «Molto di più di quanto il suo curriculum criminale avrebbe fatto ritenere. Parlava un italiano corretto ma, ciò che mi colpì di più, fu la sua genialità. Da certi guizzi dello sguardo si vedeva che sotto c era qualcos'altro. Insomma, aveva tutt'altro che un'aria rozza. Era, se posso spiegare in questo modo il suo atteggiamento, l'esponente di un ordinamento giuridico contrapposto, la mafia siciliana». In che senso? «Luciano Liggio era un uomo che non aveva alcuna intenzione di riconoscere, se non formalmente, l'autorità dello Stato». Lo fece condannare? «Sì, adesso non ricordo se a diciotto o vent'anni di carcere. In primo grado, per quei sequestri ed altri reati, la banda Liggio ebbe parziali assoluzioni, ma non lui. Pensava di chiedere la revisione del processo che lo aveva portato alla condanna per l'omicidio Navarra ma poi, dopo le sentenze di Milano confermate in Cassazione, so che non ne fece più nulla». Che impressione le ha fatto sapere che Liggio è morto d infarto nella sua cella? «Chiunque preferisce una morte naturale piuttosto che una morte violenta. Aveva 68 anni? Non era poi così vecchio». Fabio Potetti Il boss Luciano Liggio in manette dopo l'arresto avvenuto nel maggio del 1974 a Milano in seguito alle indagini sul sequestro di Rossi di Montelera

Luoghi citati: Corleone, Milano, Montelera, Nord Italia, Treviglio