DALIA PROVINCIA CON DOLORE

DALIA PROVINCIA CON DOLORE DALIA PROVINCIA CON DOLORE Uri antologìa ripropone l'opera dimenticata di Matacotta Il «figlio della vecchia Europa» confessa una solitudine CCASIONE propizia, questa che ci viene offerta dall'editore Pieraldo di Roma, per restituirci con lodevole sobrietà l'opera essenziale di Franco Matacotta, «poeta e cittadino dimenticato», come egli stesso lamentava nella Confessione di un figlio della vecchia Europa. Il volume antologico che sta per andare in libreria (Versi copernicani e altre poesie 1941-1978, pp. 188, L. 28.000) è curato da Gabriele Morelli e introdotto da Alfredo Luzi, due studiosi cui spetta principalmente il merito di aver sottratto al silenzio un autore davvero non effimero nel passaggio dal primo al secondo Novecento. L'ispanista Morelli, già allievo, poi compagno di ventura oggi depositario di preziose carte inedite -, e Alfredo Luzi, attento a ricostruirne l'itinerario creativo e ideologico, li avevamo già incontrati negli Atti del Convegno di Bergamo (1987) e, per ciò che concerne Luzi, nell'ampio saggio che precede la ristampa del romanzo La lepre bianca (Feltrinelli, 1982); entrambi impegnati a liberare 1'«anarchico selvaggio», il «ragazzo» di Sibilla Aleramo dalle gualcite stampe d'epoca. Perdura infatti la sensazione che uno degli ingegni più precoci che possa vantare l'Italia letteraria degli Anni 40, e uno dei più crudelmente colpiti nella sfera umana (il figlio adolescente trovato morto con una cinghia stretta al collo nella casa anconetana dei nonni; poco dopo, la moglie Rosetta spazzata via da un male che non concede appelli; la follia - una tara di famiglia - che d'un tratto insorge, ingigantisce e divora Franco appena sessantenne) continui a togliere alla tormentata ricerca dell'autore quel che magari concede al personaggio iridescente. Non si vuole, è ovvio, ridurre d'importanza il sodalizio con la celebre Sibilla (in proposito vanno considerati testi imprescindibili sia Un amore insolito e Dia- Canzoniere di libertà dei 1953. Dopo mille rifacimenti affida alle Nuove edizioni italiane La lepre bianca, e Giacomo Debenedetti, sull'Unità del 29 settembre '46, si affretta a coglierne il cupo fascino, la «luce nera», aggiungendo: «Beati questi giovani d'ora: qualunque cosa intraprendano, subito fanno mostra di un'abbagliante maestria». Sempre più inquieto, sempre più avido ricognitore di sé e del mondo esterno in drammatica dissonanza, sperimenta tecniche didattiche tra Civitavecchia, Lido di Ostia, Tivoli, Subiaco e Fermo; traduce Esenin in colla¬ borazione con Olga Resnevic e pubblica il Taccuino di Dino Campana, uno dei poeti prediletti sin dalla giovinezza («Egli ha fatto toccare alla lirica nostrana una zona secreta, mitica, ove tutto è istinto anziché sentimento e intelligenza», affermava in un lontano numero di Prospettive). Il '56, come per molti intellettuali nelle file del pei, è un annocardine. Scoppiano i fatti di Ungheria e Matacotta, tradito dalla madrepatria carismatica, compone di getto Versi copernicani, abbandona la capitale e prova a recuperare un più intimo centro L'editore Pkratdo ripropone le. poesie diMalacolla rio di una donna, sia Sibilla Aleramo e il suo tempo, a cura di Bruna Conti e Alba Morino); ma il decennio dell'«Insolita» passione che lega il provinciale di Fermo - dove era nato nel 1916 alla matura scrittrice, contempla ed esalta solo lo stadio, diciamo iniziatico, aurorale, del partner. Nel 1947 Matacotta è fuori di ogni edipica grazia seduttiva, governa con assoluta padronan¬ za le proprie scelte; e come gli sembrano remoti, ineffabili, i Poemetti del '41 a gloria della musa ermetica! Si è iscritto al partito comunista e ne diventerà scalpitante funzionario periferico; ha pubblicato Fisarmonica rossa, liriche epico-popolari della Resistenza che richiamano Eluard e Aragon, e su quella strada consumerà le sue pulsioni retoriche e visionarie fino al di gravità nella terra d'origine. Di quel bisogno impetuoso di radici, di gesti e volti arcaici; di quella reimmersione orfica pilotata da Lucrezio e Leopardi, sono documento Gli orti marchigiani. C'è in essi - osserva Alfredo Luzi - come un'impronta pasoliniana che rimanda alle Ceneri di Gramsci; e c'è, sottilmente diffusa, la delusione per un'idealizzata integrità perduta. Metropoli e campagna si confondono, svaniscono le tebaidi e si contrae lo spazio esistenziale perfino nei dolci borghi appenninici. Ma il disagio dell'individuo schiacciato dal feticcio tecnologico, offeso dalle miserie truccate nel consorzio urbano, avvilito dai «finti plenilunii di neon», avranno pieno sbocco in un titolo posteriore: La peste di Milano e altri poemetti (Ed. L'Astrogallo, 1975). Nel capoluogo lombardo Matacotta si era trasferito intorno al 1959, sospinto - certifica Gabriele Morelli - dall'esigenza di capire la nuova realtà sociale che andava affermandosi come modello di vita futura. In quelle giornate nebbiose, non prive di schiette amicizie (Fortini e Pratolini, Solmi, Quasimodo e Bo, Pagliarani e Vittorio Sereni, Mario Spinella e Vittorini...), era «furiosamente concentrato a indagare, a tentare un consuntivo finale che, negli anni, si era arricchito di esperienze portate alla radicalizzazione delle situazioni e del linguaggio». Ed è tristemente associato al soggiorno milanese il terribile episodio del figlioletto Massimo di cui gli Inni - il nucleo più consistente della Peste - rappresentano il doloroso canto e discanto. «Questi inni - scriveva Fortini nell'introdurre la raccolta - sono, pur con la loro accanita elaborazione formale (...), intonati sul motivo della meditazione in morte. Gli interrogativi: il dove? l'Ubi consistam? si ripetono di strofa in strofa e il lettore sa non meno dell'autore che le risposte sono tutte ingannevoli». Seguirà nel '77, ultima apparizione, il Canzoniere d'amore (L'Astrogallo, accompagnato da un intenso profilo di Giuliano Manacorda) del quale segnalerei in specie «Il ciottolo» {Cammino I spingendo la mia ombra...) e «Frammento epico», con quell'implacabile buio che avanza e distrugge le esigue risorse. L'anno successivo Matacotta si spegne a Genova in pressoché totale isolamento lasciando, certo, incompiuta la sua parabola di poeta. Non senza però aver distillato in ogni pagina, a ogni colpo basso della sorte, la verità che più gli urgeva dentro: nessuna tragedia può uccidere la speranza; nessuna notte è intramontabile. 0 meglio, con parola diretta: Sia fedele / l'uomo alla primavera. Io spero, credo. odo; a sinistra, Vasco Pratolini Marche, e da tutte le gore di colà, preti, agrari, e abiezioni della provincia. Ho aperto casa qui. Ho avuto una cattedra a Rho. Vita nuova: o, vita dura. Ma quanto quella marchigiana m'era stata imposta dai cosiddetti doveri familiari, questa me la sono scelta da me, è la mia unica liberazione. La mia vita coniugale è distrutta. Non ho alcun rimpianto del Sud. Spero di poter lavorare, qui, con maggiore lena e più fresca speranza. Avrei molto piacere di vederti: di salutarti, uno dei primi a Milano, il poeta che ha avuto tanta parte nella mia lontana formazione, l'uomo da cui si attende, nel disordine delle lingue, ancora una volta una parola di chiarezza, di impegno morale. Spero di poterti vedere presto. Abbiti i miei più affettuosi auguri. Giuseppe Cassieri Matacotta