Affascinò Gide e Berenson di Marco Vallora

Tenera simbolista, da Parigi a Firenze A Palazzo Vecchio si riscopre Elisabeth Chaplin Affascinò Gide e Berenson Tenera simbolista, da Parigi a Firenze FIRENZE NDRE' Gide le scriveva amorosamente, commentando entusiasta i quadri di lei che si precipitava a vedere ai vari salons parigini, annunciandole i suoi progetti africani ed occupandosi dell'usignolo Pico. Vittorio Pica ed Antonio Marami la invitavano ad esporre presso le varie Biennali. Anche Berenson e Ugo Ojetti le tributavano onori ed ammirazione; il già affermato Galileo Chini le scriveva galantemente che era pronto a recarsi da lei per «imparare»; Alfred Cortot, il grande pianista e collezionista d'arte e manoscritti, le commissionava un'importante allegoria della Giovinezza. Ma è soprattutto la più difficile critica d'arte parigina a riconoscere la sua originalità: Vaudoyer, Vauxcelles, Waldemar George e soprattutto André Salmon. George significa De Chirico: ed ecco che il bisbetico pontefice della metafisica si premura di presentare in catalogo una mostra romana, dove certi Pan vengono paragonati alla musica di Debussy. Non si contano le amicizie prestigiose: i Rosselli esiliati a Parigi, lo scrittore Cesbron con cui s'intreccia una brillante conversazione per lettera, De Pisis, Kess Van Dongen e Maurice Denis, che viene a trovarla a Firenze e ritrae uno dei giardini della sua villa fiorentina. Era Elisabeth Chaplin. E' incredibile come la nostra storia dell'arte avanzi spesso per salti incomprensibili, per smemoramenti ingiusti ed ingiustificabili: perché mai una pittrice di qualità ed originale come la Chaplin, che pure è morta a Firenze, novantaduenne, e non certo inavvertibile («austera, con Cambronne nel cuore» sintetizzava un amico) deve risultare praticamente cancellata dalle tabelle dei presunti valori? Ben venga dunque, invece delle insulse mostre sui naifo delle pretestuose antologie dei Grandi Maestri da dispensa d'edicola, con opere di scarto, questo sensato recupero d'un piccolo ma garantito Maestro che ha un significato vero per Firenze: la mostra I simboli e i giorni, aperta fino al 12 dicembre alla Sala d'Arme di Palazzo Vecchio e curata da Giuliano Serafini, che ha scandagliato la romanzesca esistenza della Chaplin. Romanzesca? Nata nel 1890 in una famiglia di dreyfusardi fedeli a Zola che devono fuggire in esilio, Elisabeth, un'autodidatta che a quattordici anni firma già (col nome di Fifinette) delle opere fascinose, di assicurata maturità e sorprendente disinvoltura. In viaggio verso Roma, l'intera famiglia sosta a Firenze, per un disguido di valigie, e qui la Chaplin intuisce che poserà a vita la propria ancor giovane esistenza. Giotto, Masaccio, i «suoi» preraffaelliti: e poi le varie ville, sulle colline di Firenze, in faccia ad Harold Acton, con la vecchia amica di De Amicis, Ida Capecchi, o nel leggendario Treppiede, protagonista di tanti celebri interni à la Vuillard. L'eccentrica maman Marguerite de Bavier, poetessa decadente e scultrice affiliata alla setta dei Rosacroce di Sar Péladan s'era convinta che quel talento fosse questione di reincarnazione: e infatti nonno di Elisabeth era stato quel cantore dei salotti, Charles Chaplin, «Courbet delle Grazie» come l'aveva ribattezzato Gautier, pupillo dell'imperatrice Eugénie, rivale di Winterhalter nei ritratti di corte, che aveva avuto anche il «privilegio» di fermare ad olio l'irrequieta febbre malata della Dame aux Camélias Marie Duplessis. Ma via da queste leggende, come dipingeva la Chaplin? A prescindere dal giovanile autoritratto whistleriano, prediligerà sempre tonalità anemiche, all'anilina, magre, secondo una lezione che a partire da Puvis de Chavannes attraverserà l'intera Europa. Colori d'anemoni slavati, come campeggiano in certi arabeschi di scialli o di grembiuloni da studio: questa tenera vena simbolista è la sua paradossale fibra d'acciaio; è capa¬ ce di tradurre la flebilità in forza. Un po' casoratiana, all'inizio, tra Chini e Maurice Denis, Ranson e Roussel, e la Jcssie Boswell dei Sei di Torino: sempre presente una curvatura nabie, che stempera le sue forme, volentieri di schiena o di morbido profilo. Basterebbe quel sorprendente Balthus debilitato ed ante litteram che è il Ritratto di famiglia in interno, 1910. Poi, quasi variazioni: la sorella violinista, gauguiniane fanciulle che si pettinano, paesaggi corottiani che anticipano Melli, il bellissimo Les filles du pasteur, che incantava Gide, con quello squillare notturno delle ombre che meglio fanno risaltare il profilo acerbo, protestante, delle due infelici adolescenti. Infine la stagione trionfante del simbolismo: pomone audacemente nude, Adamo ed Eva, Demetrio e Pasifae, una Bibbia in stile deco e le Georgiche, cloisonné come per una xilografia. Un Rappel à l'ordre che non è mai passato per le avanguardie: qualcosa che ricorda il parigino Gruppo dei Sei, una specie di Honegger ad olio. E par di vederla, l'indomita vecchia signorina, come un personaggio di Forster, mentre sul greto dell'Arno tassella i glutei nudi dei suoi nuotatori con lo stesso pennello che ha ritratto papa Paolo VI. Marco Vallora Elisabeth Chaplin e un suo dipinto: «Les fìlles du pasteur»