Pasolini, lo sguardo del poeta

Pasolini, lo sguardo del poeta A Milano in mostra da domani disegni e fotografie Pasolini, lo sguardo del poeta La vita? Pinacoteca immensa, da divorare EMILANO CCO, sono stato condannato. Come l'eroe di un'operetta di dolore, in coturni / tra il basso coro, scendo nella notte - tiepida - / l'orrenda scalea. Gli amici se ne vanno a cena. / Solo. Con tre gatti di fotografi, e la piccola / folla che non guardo, eroe compreso nel suo dolore». Così si dipinge, con autolesiva sincerità - frammento di autobiografia strappata ad uno specchio convesso, come nella pittura fiamminga - il Pasolini di Poesia informa di rosa, questo eroe del malincuore, che continua a guardare anche se ha spento lo sguardo. Solo: tuffato nel tepore non rassicurante della notte, che lo ghermisce con mani maligne. C'è, nella coinvolgente mostra La forma dello sguardo, che si apre domani, all'Arengario, un'illuminante fotografia di Angelo Pennoni, che lo pedinava durante i sopralluoghi per le Mille e una notte: un'immagine brulicante ed affollata di volti arabi come un suk sudaticcio. Al centro, papalina turchesca, gli zigomi appuntiti come di spilli, i fidi occhiali neri che schermavano precauzionalmente il suo sguardo bulimicamente affamato di realtà - il poeta-regista, periscopio di sofferenza, smarrito in quel mercato di corpi. Annegato, impastato di vita, ma come immediatamente ritagliato, sovrapposto, quasi una decalcomania: solo, irrimediabilmente solo, anche nel cuore cencioso della folla. «Una notte affollata nella solitudine» come appunta, accanto ad uno dei fuggenti disegni «spiritici» durante una seduta amichevole in casa di Laura Betti: pittore incapace di risparmiare parola, scrittura. la solitudine dell'artista Una solitudine che si sdoppia, si parla, si perseguita: «Tu scenderai nel mondo e sarai candido e gentile, equilibrato e fedele» si legge in mostra, accanto ad una dilavata fotografia di fanciullo, che s'illude ancora d'essere un soldatino della vita, il violino stretto sottobraccio come un amico, od un'arma di protezione, «avrai un'infinita capacità di obbedire / e un'infinita capacità di ribellarti. / Sarai puro. / Perciò ti maledico». Il vedere come dannazione. Sempre l'«artista» Pasolini versa il proprio sentire privato in uno stampo d'immagine formalizzata, proiettandosi in uno sguardo oggettivato, altro da sé: ma che non è ancora guarigione, anzi. «Guardo con l'occhio / d'un'immagine gli addetti al linciaggio. Osservo / me stesso massacrato col sereno / coraggio di uno scienziato. Sembro / provare odio, e invece scrivo / dei versi pieni di puntuale amore. Studio la perfidia come un fenomeno / fatale. / Passivo come un uccello che vede / tutto, volando, e si porta in cuore / nel volo in cielo la coscienza / che non perdona». L'interesse di questa mostra, da un'idea di Costantino Dardi, perennemente rinnovata dall'architetto Serrani, che ci introduce come in un tunnel archeologi¬ co, claustrofobico ed amniotico, una Petra di garza schermante, che riflette la luce e vela la visione diretta delle immagini «separando la vita dalla poesia», l'interesse è proprio questo, di contrapporre le parole fluide della poesia allo sguardo pietrificato dell'immagine, svelando la visualità segreta di un multiforme ingegno come Pasolini, che scrisse, dipinse, fece del cinema, quasi fosse una scrittura dipinta. Un'immagine bloccata, pittorica, riconoscibile, che soltanto il fotogramma può restituirci (la Deposizione acida di colori di Pontormo o le membra usate di Caravaggio) icona che dopo un istante di stupefatta immobilità si scioglie nella vitalità del cinema. Perché Pasolini lo teorizzava: il cinema è «la lingua scritta della realtà», così come la realtà - quell'immenso piano-sequenza che è la realtà «è cinema in natura». De Pisis il modello Si sa che sin da giovanissimo Pasolini toccava le tele, indeciso se divenire poeta o pittore, sul modello dell'amato De Pisis, su cui volentieri avrebbe svolto la tesi, con Longhi, se soltanto questo dandy sopraffino non avesse temuto la sua vitalità esplosiva, temendo «un altro cretino motorizzato». E lo passò all'assistente Arcangeli. Colori. Fare pittura, continuamente: meglio, vedere in pittura. La matrice manierista, così avvertibile nella sua poetica, è proprio questa: la convinzione che ogni sguardo nasca già condizionato dal museo, ovvero, dalla creatività dell'immensa pinacoteca della vita. La vita è già pittura. Non c'è nulla di funerario, di accademico, in questo: tanto più che lo scambio comunicante tra realtà e arte è continuo. Nelle sue periferie disastrate, ecco catturati intieri «pezzi di Masaccio», «prati convessi e immensi, in panoramica» che «mostrano gruppi degni di Mizoguchi», malandri che sembrano appena strappati alle tele notturne di un tenebrista del Seicento, o al sensibilismo napoletano: «Chi con piglio spagnolesco / - un Caravaggio - si gonfia del lavoro / e chi, lazzarone - un Gemito - dell'ozio». «Ombra, chi opera in questa era. / Ah, sacro Novecento, regione dell'anima / in cui l'Apocalisse è un vecchio evento! / Il Pontormo con un operatore / meticoloso ha disposto cantoni / di case giallastre, a tagliare / questa luce friabile e molle. / Vanno, come senza alcuna colonna sonora / (...) nella malinconia dell'Italia dei Manieristi». E' una visione anche sacrale, liturgica dell'orrore, dello sporco mondo di monnezza e di borgate, eh? s'è costretto a cantare: «Sono altari / queste quinte dell'Ina-Casa / in fuga nella Luce Bullicante, / a Cecafumo. Altari della gloria / popolare». In cui prorompe, spetezzando come una motoretta ubriaca, Mamma Roma-Anna Magnani: «Vengono Mamma Roma e suo figlio / verso la casa nuova, tra ventagli / di case, là dove il sole posa ali / arcaiche». Antichità dell'orrore. E, dialogando con l'immaginario datore di luci: «La luce è monumentale, / forza, forza, approfittiamone / (...) che sfondi, faccia pure / di questi corpi in moto statue / di legno, figure masaccesche / deteriorate, con guancie bianche / bianche». L'impero dei segni visivi impregna dunque questa mostra, dalle balenanti fotografie negre, molto Leni Riefenstahl, dello stesso Pasolini ai chiassosi manifesti dei suoi film, di confronto «consumistico»; sino agli icastici fotogrammi, suddivisi secondo un ragionevole dizionario del vedere: la solitudine, il silenzio, il ballo, la sottomissione, il corpo d'amore. Marco Vailora I balenanti «scatti» africani alla Riefenstahl. I chiassosi manifesti dei suoi film. Periferie romane con personaggi degni del Masaccio Immagini cinematografiche come quadri del Pontormo o del Caravaggio —\ ^—r In alto, due disegni di Pasolini esposti all'Arengario e un suo famoso autroritratto. Qui accanto, ancora Pasolini, in una foto giovanile a Villa Borghese

Luoghi citati: Caravaggio, Italia, Milano, Roma