La biografia di Denis Mack Smith: ritratto d'un eroe tradito

La biografia di Denis Mack Smith: ritratto d'un eroe tradito La biografia di Denis Mack Smith: ritratto d'un eroe tradito MAZZINI fra i trasformisti /\ IUALI furono i risultati i I concreti dell'opera di 11 educazione, organizza11 zione e agitazione politi-V_J ca di Giuseppe Mazzini? V Per rispondere a questa domanda Denis Mack Smith, il grande storico inglese, ha dedicato al patriota italiano uno dei suoi lavori più importanti, che sta per uscire nella versione italiana, edito da Rizzoli. Ma nello studiare il ruolo di Mazzini per l'unificazione del Paese, Mack Smith ha disegnato anche un grande affresco della parte «oscura» del nostro Risorgimento: soprattutto, il gioco dei trasformismi, i «veleni», i tradimenti che, se non impedirono la rinascita nazionale, seminarono in qualche modo nel nuovo Stato i germi di quel che sarebbero stati in seguito, e fino ai nostri giorni, elementi di disgregazione. Anticipiamo parte del capitolo dedicato agli anni 1868-70, alla vigilia della guerra franco-prussiana, che si conclude con l'arresto di Mazzini. w|N quel periodo i giornali I italiani davano spesso no1 tizia di tumulti scoppiati I nelle città, di movimenti *l studenteschi di protesta, di sollevazioni dei contadini contro gli aumenti delle imposte sui generi alimentari. Fu data pubblicità ad alcune rivelazioni su episodi di corruzione in cui si pensava che il re stesso fosse coinvolto. Erano molti, in tutta Italia, ad assicurare che avrebbero dato il loro appoggio a una rivoluzione contro il malgoverno; ma Mazzini aveva ormai imparato che non rientrava nelle possibilità di un esule come lui, ridotto alla clandestinità, organizzare più sollevazioni simultanee. (...) Particolarmente scoraggiante era il silenzio di Garibaldi, al quale pure Mazzini aveva scritto più volte per sollecitare un incontro in cui discutere di obiettivi e di tattiche. Erano due forti personalità, due patrioti appassionati, convinti entrambi che soltanto un'insurrezione popolare avrebbe costretto il sovrano a fare qualcosa per prendere Roma; se avessero collaborato come avevano fatto negli anni 1860 sarebbero stati, insieme, una grande forza. Ma erano più in disaccordo che mai, tanto più ora che Garibaldi si dichiarava socialista e appoggiava pubblicamente l'Internazionale socialista di Marx. Garibaldi affermava nuovamente di non tenere in alcun conto Mazzini: non lo considerava un «uomo pratico [...]. Egli parla sempre di popolo, e non lo conosce!» (...). Ciò che spinse Mazzini a tentare un'ultima impresa rivoluzionaria fu la conferma, giuntagli dai suoi informatori segreti di Parigi, circa un'imminente guerra franco-prussiana, che da un momento all'altro avrebbe potuto costringere le truppe francesi a ritirarsi da Ro- ma. Il 7 gennaio 1870 giunse in segreto a Genova e, in un modo o nell'altro, riuscì a te- nervisi nascosto i sei mesi successivi in attesa dell'inizio di quella guerra. (...) Il nuovo primo ministro italiano era Giovanni Lanza, un politico più serio, onesto e liberale dei generali dell'esercito che il re aveva mostrato di preferire come capi del governo. Ministro degli Esteri era Visconti Venosta, il quale, come Melegari, che sarebbe stato il suo successore, era stato un tempo violentemente antimonarchico, ma aveva rinnegato da un pezzo la sua fede repubblicana ed il suo antico entusiasmo per Mazzini. Lanza, malgrado voci contrarie, continuava a sperare che l'imprendibile avversario si trovasse ancora in Inghilterra. A marzo, e ancora a giugno, i ministri pensavano che si fosse trasferito in Svizzera, mentre in realtà era sempre a Genova. Li preoccupava soprattutto il fatto che Mazzini continuasse a trovare adesioni all'interno delle forze armate, mentre continuavano ad appoggiarlo gli studenti delle università, che organizzarono una rivolta quando si videro negare un giorno t di vacanza in cui intendevano celebrare, in suo onore, la festa di San Giuseppe. (...) A Genova, durante quei mesi di clandestinità, Mazzini aveva ben poche possibilità di utilizzare quel malcontento e quelle potenziali alleanze, né era in grado di valutare le probabilità di successo o di dare direttive precise. Restio a impartire ordini scritti, che potevano essere intercettati, si assunse il rischio di far sperare ai suoi luogotenenti che avrebbero potuto dover agire di loro iniziativa. (...) Con una tale rinuncia alle sue funzioni di capo erano inevitabili i malintesi. A marzo, uno di questi condusse a Pavia all'assalto di un'altra caserma, effettuato a sua insaputa e respinto facilmente; a Piacenza uno dei rivoltosi, il caporale Barsanti, venne giustiziato. Nelle settimane successive vi furono altre insurrezioni, di scarsa importanza e non coordinate fra loro: a Reggio, a Carrara, a Lucca e a Porlezza. Sembra che Mazzini non fosse coinvolto personalmente in nessuna di esse; a promuoverle erano stati piuttosto degli amici di Garibaldi. A maggio qualche centinaio di ribelli calabresi annunciò fieramente che Maida - un piccolo villaggio - era diventato una Repubblica indipendente. (...) Decise di concentrare la propria attenzione sulla Sicilia; lì avevano avuto inizio le grandi rivoluzioni del 1848 e del 1860, e lì aveva, lui stesso, un seguito che era bastato ad eleggerlo al Parlamento. Un'altra circostanza favorevole era il malcontento dei siciliani per i metodi autoritari e talvolta crudeli del prefetto, il generale Medici, un altro membro della Giovine Italia che da molto tempo aveva mutato bandiera ed era diventato un sostenitore della monarchia. Quando gli si presentò una deputazione di siciliani che chiedeva il suo appog¬ gio, Mazzini lì per lì avanzò qualche obiezione; temeva che un'eventuale sollevazione sarebbe stata sfruttata dai separatisti, che volevano l'autonomia dell'isola. Finì poi per promettere che, per prevenire un disastro del genere, sarebbe venuto in Sicilia di persona. Medici seppe di quella promessa da un informatore e, cosa altrettanto allarmante, scoprì a Palermo una fabbrica clandestina di armi. Una richiesta del prefetto convinse Lanza a inviare due navi da guerra e quattro battaglioni di rinforzo per reprimere qualunque insurrezione - un'importante circostanza di cui Mazzini non poteva essere a conoscenza. Il 19 luglio la Francia dichiarò guerra alla Prussia; forse non lo avrebbe fatto senza l'entusiastica ma totalmente irresponsabile promessa di un concreto appoggio militare da parte di Vittorio Emanuele - appoggio che difatti tardò ad arrivare. Mazzini, che prevedeva e sperava in una vittoria della Prussia, invitò i suoi seguaci a cogliere quell'occasione per ribellarsi, e fece appello a Berlino per un aiuto finanziario. Ciò, a Firenze, provocò qualche panico; secondo informazioni private, Bismarck avrebbe addirittura inviato, per sovvenzionare un'insurrezione repubblicana, la rispettabile somma di 800.000 franchi. E' veto che il premier prussiano era certo disposto a procurarsi appoggi non importa dove, da Mazzini come da Marx. Anche se pare venissero fatte alcune promesse di denaro, è improbabile che pensasse che un appoggio come quello valesse tanti quattrini. In ogni caso, i francesi erano preoccupati: una sollevazione repubblicana in Italia avrebbe ridotto le probabilità di una loro vittoria militare. A sua volta il governo austriaco temeva che Mazzini e Garibaldi, agendo insieme, cogliessero quell'occasione per impadronirsi di Roma e per proclamare la repubblica. Era ciò che prevedeva anche l'ambasciatore americano a Firenze; e a Firenze il ministero degli Esteri doveva ammettere che quella possibilità andava presa sul serio. La preoccupazione del governo italiano aumentò quando le truppe francesi cominciarono a evacuare Roma. Lanza sapeva che, finché c'era il pericolo di una sollevazione repubblicana, era suo dovere fare tutto il possibile per impedire che il re, valendosi delle sue prerogative sovrane, dichiarasse guerra aÙa Prussia e inviasse l'esercito a combattere al fianco di Napoleone. Altri politici avrebbero voluto fare di più: prevenire i repubblicani sfidando Napoleone, e assicurando alla monarchia l'onore della conquista di Roma. Quanto a Vittorio Emanuele, benché avesse una voglia matta di guidare le sue truppe alla vittoria sul Reno, finì per riconoscere che forse l'esercito sarebbe stato necessario in patria, per essere impiegato contro l'eventuale rivoluzione. Era dal 1860 che Mazzini non esercitava tanta influenza sulle più importanti decisioni della politica governativa. L'8 agosto la polizia, che ormai sospettava che stesse nascosto a Genova o nei dintorni, ricevette l'ordine di arrestarlo su due piedi, senza aspettare un mandato; ma la polizia obiettò che non era possibile appurare dove si trovasse. Lanza punì il prefetto (anch'egli ex mazziniano) per avere disubbidito agli ordini; ma è evidente che i servizi di spionaggio governativi erano colpevoli di mancata sorveglianza della loro vittima designata, che in realtà stava di casa proprio di fronte alla prefettura. Non sapeva, Mazzini, che Garibaldi gli si era messo contro al punto da offrirsi segretamente di dare man forte a Lanza con 30.000 dei suoi volontari per aiutare il governo contro qualunque tentativo repubblicano di rivoluzione. Né sapeva che un altro dei suoi più stretti collaboratori era una spia pagata dai francesi, e forse anche dalla polizia italiana; anzi, mandò quell'uomo, il maggiore Wolff, in Sicilia a mettere a punto i preliminari di una rivoluzione di cui aveva fissato l'inizio al 15 agosto. (...) Quando, il 6 agosto, giunse la notizia di due gravi sconfitte subite dai francesi, Mazzini prese il treno e si precipitò a Napoli. All'albergo lo riconobbero, e anche Medici, a Palermo, seppe del suo arrivo, probabilmente da Wolff; ma le autorità napoletane non riuscirono ad arrestarlo - o, forse, ebbero paura di farlo - e dopo avere aspettato due giorni per scoprire le loro intenzioni, Mazzini, senza essersi troppo preoccupato di nascondersi, s'imbarcò per la Sicilia. Sembrerebbe quasi che provocasse deliberatamente il governo nella speranza che, nel peggiore dei casi, il suo arresto desse il via a una rivolta generale. Il 13 agosto, giunto a Palermo, fu arrestato da Medici prima ancora di sbarcare; era la prima volta dopo il 1830, a parte poche ore di detenzione in Svizzera. Lanza avrebbe voluto deportarlo in Inghilterra per evitare difficoltà, ma un consiglio di gabinetto riunito in fretta e furia decise il suo trasferimento «con tutti i riguardi dovuti all'età e alla qualità della persona» nella fortezza di Gaeta. In quei tre giorni di navigazione l'equipaggio della fregata su cui era stato imbarcato lo trattò con cortesia, e anzi con cordialità, dimostrandogli simpatia, e quasi ammirazione. Non riuscì mai a capire come mai la notizia del suo arresto non avesse immediatamente provocato, da un capo all'altro della Sicilia, un'insurrezione alimentata dal denaro e dalle armi da lui forniti in precedenza. Denis Mack Smith 1870: così tornò in Italia e fu arrestato controvoglia Garibaldi lo osteggiava molti repubblicani erano ormai tra le file monarchiche: ma nelle città covava la rivolta contro malgoverno e corruzione MAZZINI fra i ma. Il 7 gennaio 1870 giunse in segreto a Genova e, in un modo o nell'altro, riuscì a te- nervisi nascosto i sei mesi succestrasformisti Qui accanto una lettera di Mazzini a Nino Bixio Sotto, Giuditta Sidoli la donna amata A sinistra Mack Smith Accanto, con Mazzini il professore di Oxford Benjamin Jowet