«A' Fra' che te serve?» Così passò alla storia

8 E' morto Franco Evangelisti, l'ombra di Andreotti: 13 anni fa parlò per primo dei finanziamenti ai partiti «A' Fra', che te serve?» Così passò alla storia PER me la morte di Franco Evangelisti è la morte di un parente. Lui mi odiava. Troppe volte ho dovuto raccontare, sempre in maniera incompleta, la storia della nostra famosa intervista passata alla storia come «A' Fra', che te serve?». Questa espressione è passata in lessico, è diventata storia. Con Franco Evangelisti ho un debito che non è quello dell'imbarazzante notorietà dovuta a quell'intervista, ma un altro: fu lui, nel 1980 - ben tredici anni fa che oggi sembrano un'era geologica - a svelarmi Tangentopoli. Mi raccontò, e io vanamente riraccontai sulla carta stampata e in televisione, come gli imprenditori andassero settimanalmente a fare «il giro delle sette chiese» partitiche per versare il loro obolo. E lo consegnavano sia ai capicorrente (Evangelisti per conto di Giulio Andreotti, nella fattispecie), che ai segretari politici di alcuni partiti. Della democrazia cristiana certamente, mi disse allora Evangelisti. Quando mi concesse la famosa intervista Evangelisti era ministro della Marina mercantile. L'Espresso aveva pubblicato le matrici degli assegni Italcasse ed Evangelisti promise imprudentemente al direttore di Repubblica, giornale di cui ero redattore, che qualcosa avrebbe detto. Ma in modo allusivo, garbato, e sostenendo la tesi secondo cui «così fan tutti». Devo dire, povero Evangelisti, che aveva ragione lui: la forma di malcostume che oggi chiamiamo «Tangentopoli» era allora florida e eh fatto accettata come uno dei mali minori, e risaputi, d'Italia. Prova ne sia che di tutto il marcio che emerse da quella confessione, ciò che colpì allora l'immaginazione e si fissò nella memoria collettiva non fu l'aperta violazione della legge che regolava e regola il finanziamento dei partiti, ma quell'espressione che sembrò troppo sfrontata, tanto volgare quanto cinica: queH'«A' Fra'» che passò dalla stanza del ministro al lessico consolidato. Lo scandalo non ci fu: di Tangentopoli non impor- tava niente a nessuno. Evangelisti in realtà non aveva alcuna voglia di concedermi quella intervista nei termini in cui uscì. Era convinto di trovarsi di fronte a un giornalista addomesticato che si sarebbe prestato a rendere generico e indecifrabile tutto quanto lui avrebbe confessato con chiarezza. Per questo mi accolse festosamente sulla porta del suo studio e, benché non c; fossimo mai visti né conosciuti, dandomi del tu in modo autoritario e confidenziale: lui veniva dal mondo della boxe ed era abituato a trattare come sudditi certi cronisti sportivi. Fatto sta che mi disse: «A Guzzà, lo sai che er direttore tuo te stima? Gli ho chiesto: mica me manderai un cretino. E lui m'ha detto: te mando Guzzanti. Da questo ho capito che te stima». Strinsi i denti, mi sedetti e tirai fuori il bloc notes. Mi fermò con la mano: «Te lo dico io quando devi scrivere. Adesso te devo prima spiega er brè-graund (back-ground, ndr). E er brègraund è questo: qua avemo magnato tutti». Poi mi guardò negli occhi per misurare l'effetto della sua dichiarazione e, ritenendo utile un rincaro, ripetè con enfasi: «Tutti! dar primo all'ultimo!». Rinfoderai il quaderno e ascoltai: mi raccontò tutto quello che è noto, il libretto degli assegni di Caltagirone, le visite alla stanza di Benigno Zaccagnini (trenta milioni per il beatificando) e il resto. A lui, Franco Evangelisti, l'altro Franco domandava aprendo il carnet degli assegni e scappucciando la penna: «A' Fra', che te serve?». Evangelisti diceva la cifra e l'altro scriveva. E così, sembra, facevan tutti o quasi. A confessione finita Evangelisti mi disse: «Riapri il quaderno. Adesso scrivi. Dunque, tu me chiedi che cos'è questa storia degli assegni. E io te rispondo che effettivamente esiste un problema di trasparenza, perché effettivamente certi episodi possono essersi verificati...». Insomma, bla-bla-bla. Salutai, andai a casa e scrissi il verbale autentico della confessione. Poi lo chiamai a Bruxelles dove era andato per una riunione dei ministri della Comunità e gli lessi tutto quello che poi sarebbe uscito. Era muto. Sentivo soltanto il clic-ciac ritmico della teleselezione. Finita la lettura disse: «A Guzzà, tu me voi rovina. Me voi manna ar macello». Risposi, provando una profonda sofferenza umana, perché stavo compiendo in assoluta lealtà un compito feroce e necessario: «Al contrario. Lei è un eroe del nostro tempo. Lei sarà ricordato per quello che è: il primo e unico politico che abbia avuto il coraggio di dichiarare davanti al Pae¬ se che "qui avemo rubato tutti". Lei è un eroe, ministro Evangelisti». Lo dissi, lo pensavo e lo penso. Certamente, più che eroico fu imprudente e sembra che Giulio Andreotti, dopo lo scandalo che derivò da quella intervista, gli abbia sibilato a Montecitorio: «Ma si può essere più imbecilli?». Tuttavia Evangelisti è stato un uomo tormentato, certo di fare il suo mestiere di politicante fac-totum al servizio di un politico leader come Andreotti. Prima di crollare tentò di smentire l'intervista sostenendo di non averla mai data. Il Tg2, allora fortemente dominato da giornalisti comunisti, fece l'impossibi- le per salvare Evangelisti e ridurre la portata dell'episodio: il braccio destro di Andreotti era infatti l'uomo che tesseva il compromesso storico e il governo consociativo assieme ad Antonio Tato, che era il braccio destro di Enrico Berlinguer. Evangelisti e Tato formavano una coppia politica molto affiatata e il giornale di Scalfari li considerava entrambi interlocutori privilegiati e collaboratori indispensabili. Credo che questo fosse il motivo per cui Evangelisti avesse accettato di parlare in forma criptica e con un giornalista che fosse molto incline alla comprensione. Il fatto che oggi si finga di apprendere come cosa nuova e scandalosa ciò che Franco Evangelisti aveva imprudentemente rivelato, giocandosi la carriera di ministro e avviandosi verso un melanconico viale del tramonto, mi spinge a rivalutare ancora di più questo democristiano traffichino e brillante, spudorato e volgare, leale e sfortunato, incapace di cogliere l'aspetto criminoso di quel che raccontava. Quando, nel corso dell'intervista, gli contestai l'aperta violazione della legge sul finanziamento dei partiti, mi guardò come se avesse capito di colpo di trovarsi di fronte a un matto: «Ma che dici? Il finanziamento pubblico è una bufala alla quale non crede nessuno: è fumo negli occhi». Sì, il vecchio «A' Fra'» non era un sottile diplomatico e aveva un'idea duttile dell'etica applicata alla politica. Ma covava dentro di sé una sofferenza astiosa, come un risentimento che già allora aveva il sentore del presentimento e nessuno potrà contestargli il merito di essere stato il primo a parlar chiaro, quando ancora il tema delle tangenti non era di moda. Paolo Guzzanti Traffichino e leale volgare e brillante, fu uomo tormentato Bloccata la carriera si avviò verso un melanconico viale del tramonto In una intervista confidò che tutti prendevano soldi, ma allora non ci fu scandalo Franco Evangelisti in un'immagine di qualche anno fa A sin. Evangelisti con Andreotti. Sotto, l'andreottiano Vittorio Sbardella

Luoghi citati: Bruxelles, Caltagirone, Guzzà, Italia