Schopenhauer bacchettate al maestro Goethe di Anacleto Verrecchia

pncontro-scontro fra due geni: le rivelazioni dell'epistolario pncontro-scontro fra due geni: le rivelazioni dell'epistolario Schopenhauer, bacchettate al maestro Goethe WOLFGANG, POETA COPIONE wm-: | E Goethe capì subito il genio di SchopenL * hauer, Schopenhauer capì meglio di qualm siasi altro il genio di Goethe, senza per I j questo rinunciare, quando se ne presentala/ ' va l'occasione, a rivedergli le bucce. Per esempio, egli fu il primo a scoprire che molti apoftegmi, che Goethe aveva spacciato per farina del proprio sacco, erano in realtà proverbi italiani tradotti e vestiti alla tedesca. Insomma, Goethe aveva fatto il «mariuolo» e saccheggiato a piene mani i Proverbi italiani, raccolti e ridotti sotto a certi capi e luoghi comuni per ordine alfabetico, Compagnia degli Aspiranti, Verona 1603. Schopenhauer indicò, con tanto di numero di pagina, la fonte di quelle sentenze che il poeta, dopo averle rivestite con una bella vesticciola tedesca, aveva spacciate per proprie. Il poeta conosceva bene la lingua italiana, ma il filosofo la conosceva ancora meglio, compreso qualche dialetto. Qualche esempio. Goethe: «Se una donna ha un buon marito, / Glielo si legge in viso». Schopenhauer: «Chi ha buon marito, in viso il porta. Prov. Ital., p. 148». Goethe: «A furfante, furfante e mezzo». Schopenhauer: «A un triste ve ne vuol un e mezzo. Prov. Ital., p. 39». Goethe: «Tutto si sopporta nel mondo, / Tranne una serie di belle giornate». Schopenhauer: «Ogni cosa si sopporta, eccetto il buon tempo. Prov. Ital., p. 185». Sia detto per inciso. Anche Nietzsche, in una lettera da Torino del 13 novembre 1888, riprese il detto di Goethe, senza minimamente sospettare che fosse la traduzione di un proverbio italiano: «Oso affermare che la mia salute si trova meglio così che durante la serie di belle giornate, di cui neppure Goethe era molto contento». Non escluderei, però, che qualche furtarello lo abbia fatto anche Schopenhauer. Quando, in una celebre battuta, dice che le donne hanno i capelli lunghi e il cervello corto, è molto probabile che ahbia mutuato il proverbio bergamasco: «Le done le gh'a lungh i caéi / E curt i servei». E non si dimentichi che egli, a Milano, s'interessò al dialetto lombardo, così come a Venezia si era interessato a quello veneto. Del resto la sua amante veneziana Teresa Fuga gli scriveva in uno spassosissimo veneto-italiano. Eccone un assaggio delizioso: «Caro amico, con tanto piacere ricevei la tua letara sentindo che non ti sei dimenticato di me e che conservi per me tanta premura ma credimi mio caro che ne meno io non mi sono dimenticata di te anzi dicevo fra me stesa (sic!) come mai si deve credere ai omini...». [a. v.] no di devozione e di ammirazione per il maestro, finì per sviluppare una teoria che si discostava non poco da quella di Goethe: «Sulla vista e i colori». Le lettere che essi si scambiarono sono state ora raccolte in volume e pubblicate dall'editore Hoffmans di Zurigo: Arthur Schopenhauer, Ber Briefwechsel mit Goethe. Il commento è di Ludger Lùtkehaus, che fa anche della psicologia sui rapporti tra i due. In queste lettere abbiamo già tutto Schopenhauer: orgoglioso e pienamente conscio del proprio valore, egli non è disposto a sacrificare la propria opinione neppure al dio Goethe. Egli non è come Lenz, Kleist e anche Hòlderlin, che per non essere stati riconosciuti dall'Olimpico fecero naufragio. No, Schopenhauer non abbassa la testa e discute da pari a pari. Per lui, che ha radicalizzato la filosofia di Kant, il mondo sensibile o fenomenico è una nostra rappresentazione: gli oggetti, come tali, ci sono solo in quanto essi vengono rappresentati dal soggetto conoscente. Ma questo non vuole «assolutamente entrare» nella testa del «realista» Goethe. La luce, gli dice il filosofo, non ci sarebbe, se noi non la vedessimo. E il poeta, pieno di meraviglia, risponde: «Cosa? No, sarebbe lei a non esserci, se la luce non la vedesse». Mettiamoli d'accordo con le parole che Nietzsche, pur sempre un epigono di Schopenhauer, fa dire al suo Zarathustra rivolto al sole: «0 grande astro, che mai sarebbe la tua felicità, se non ci fossero coloro a cui risplendi?». Ad un certo punto Goethe, permaloso, si scocciò di quell'allievo scomodo, che gli rivedeva le bucce e mostrava di saperla molto lunga. Il 28 gennaio 1816, gli scrisse che era «fatica sprecata» il cercare ancora di «capirci reciprocamente». Poi fece un consuntivo di quell'amicizia: «Il dr. Schopenhauer si mise al mio fianco come benevolo amico. Discutemmo insieme e concordemente alcune cose, ma alla fine non fu possibile evitare una certa separazione, come due amici che, dopo aver camminato insieme, si danno la mano, andando uno verso il Nord e l'altro verso il Sud, c perdendosi poi presto di vista». A parte i disaccordi scientifici e filosofici che li divisero, e di cui qui non è possibile riferire per esteso, occorre dire che Goethe fu il primo ad intuire la potenza intellettuale di Schopenhauer: Similis simili gaudet. Sul piano umano, però, è probabile che il poeta, nell'aspra lite tra Johanna Schopenhauer e il figlio, abbia parteggiato per la madre. E dire che la brava signora, per placare i suoi ardori di vedova allegra, aveva buttato fuori di casa il figlio e si era presa un amante di circa 15 anni più giovane di lei! Le lettere di Schopenhauer a Goethe sono forse le più belle che egli abbia mai scritto. Sotto sotto gli rimprovera, pur con molta deferenza, di sciupare il suo genio nella vita di società: «So da lei stesso che per lei l'attività letteraria è sempre stata cosa secondaria, mentre la cosa principale è stata la vita reale. Per me, invece, è il contrario. Per me ha valore quello che penso e scrivo; invece quello che vivo personalmente e che mi succede è cosa secondaria, anzi me ne faccio beffe». Poi alza il tiro e, con inaudita audacia, dice al cortigiano Goethe che a fare il vero filosofo è il «coraggio di non tenersi nessuna questione sul cuore». Il filosofo deve somigliare all'Edipo di Sofocle, che cerca di far luce sul proprio destino, anche se ha il presentimento che esso sarà orribile. Schopenhauer, da vero filosofo, bastava a se stesso. Una volta, sentendo lo scrittore Tieck parlare di Dio, saltò su come punto dalla tarantola e, fulminandolo con gli occhi, gli disse sarcasticamente: «Cosa? Lei ha bisogno di un Dio?». Figuriamoci se un tipo così poteva aver bisogno di un padre di riserva. Anacleto Verrecchia

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