Le 32 ore piacciono «almeno a parole» di Stefano Lepri
Le 32 ore piacciono «almeno a parole» LE MOi i Li IDEE Le 32 ore piacciono «almeno a parole» FORSE anche le ricette degli economisti contro la disoccupazione hanno cicli, come ce l'ha l'economia. «Da tempo le economie di mercato sono afflitte dalla disoccupazione e dal ristagno della produzione...» è l'inizio di un libro che non è stato scritto in questi mesi, ma 9 anni fa, da un professore del Massachusetts Institute of Technology che collaborò anche con La Stampa, Martin Weitzman. Se ne parlò molto, alla metà degli Anni 80, di quella ricetta; poi la ripresa della crescita la fece dimenticare. Nella sua radicalità, l'idea di Weitzman era semplice: si istituisce un monte salari fisso come quota dei ricavi dell'impresa, da spartire fra tutti i lavoratori che ci sono. Da una parte, i dipendenti sono molto interessati al buon andamento dell'impresa. Dall'altra l'impresa ha un forte incentivo verso nuove assunzioni, poiché può produrre di più senza accrescere il costo complessivo del lavoro. ((Audace e concreto», come lo definì il premio Nobel Robert Solow, il progetto se posto in pratica avrebbe incontrato un ostacolo serio: come convincere gli occupati a ridurre il loro reddito a ogni nuova assunzione di disoccupati. L'idea della ((partecipazione» (share economy) non fu dunque sperimentata nel suo aspetto espansivo (aumentare i posti di lavoro), solo in quello difensivo (diminuire i salari se l'impresa va male, per evitare i licenziamenti). Nigel Lawson, a quel tempo cancelliere dello Scacchiere di Margaret Thatcher, se ne fece promotore in Gran Bretagna. Diversi economisti se ne entusiasmarono, esortando anzi il governo a una maggior decisione. Ma i risultati non furono sconvolgenti. E Lawson, se ha guadagnato il ((posto nella storia» che il Financial Times gli prometteva, non lo ha guadagnato per questo. Certo, i tempi sono cambiati. Allora si scommetteva con più sto. Ce Alloi facilità su una ripresa della produzione; mentre il rimedio contro la disoccupazione di cui si discute adesso, ridurre l'orario e solo in conseguenza anche il salario, sembra prendere tristemente atto che, nei Paesi ricchi, per tutti gli Anni 90 di crescita ce ne sarà poca. Proprio perché questa crisi sembra più grave, la discussione è più estesa. Gli schieramenti dei favorevoli e dei contrari sono più frastagliati, meno prevedibili. Ed è certo un fenomeno culturale che in Francia, «almeno a parole» come nota ironicamente Le Monde, il consenso politico alle «32 ore» sia larghissimo. Potrà funzionare? Limitati tentativi di «condivisione del posto di lavoro» (la formula tecnica per «lavorare meno, lavorare tutti») sono stati fatti già da qualche tempo in alcuni Paesi; un osservatorio importante come la Bri di Basilea, diretto dallo stesso Alexandre Lamfalussy che sarà il primo presidente dell'Istituto monetario europeo, sostiene che «nella maggior parte dei casi gli effetti sulla disoccupazione sono stati relativamente modesti»; e sottolinea che la riduzione dei salari deve essere congrua. Finché si tratta di difendere dai licenziamenti una collettività che c'è, come alla Volkswagen, la solidarietà pare funzioni. Ma quanti lavoratori accetterebbero un calo permanente del salario in cambio di una riduzione di orario che permetta di assumere disoccupati? Un sondaggio compiuto in Francia dà 83% di favorevoli alla settimana di 4 ore se la riduzione di salario è del 5%, che scendono già a 56% con una riduzione del 10%. Ma dalle attuali 39 a 32 ore, il calo di tempo è del 18%. In Germania, la percentuale di chi accetterebbe un taglio del 10% è quasi uguale, 54%; a un taglio del 20%, i favorevoli sarebbero solo il 35%. Stefano Lepri
Persone citate: Alexandre Lamfalussy, Alloi, Lawson, Margaret Thatcher, Martin Weitzman, Nigel Lawson, Robert Solow, Weitzman
Luoghi citati: Basilea, Francia, Germania, Gran Bretagna, Massachusetts
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