Gli indignati e i rassegnati

Eltsin ultimo zar o primo democratico? Eltsin ultimo zar o primo democratico? MOSCA Gli indignati e i n DA quando Boris Eltsin ha deciso di reprimere con la forza l'insurrezione armata del Soviet Supremo, so. 1 no molti a portare il lutto, in Occidente e in Russia. Si piangono i morti della Casa Bianca un evento tragico, nella ricostruzione della Russia - ma spesso si piange qualcos'altro: la sconfitta della democrazia, la perdita dell'idea armoniosa che ci si era fatti del post-comunismo, la fine di quella che non pochi chiamano ormai, rassegnati o delusi, la grande illusione dell'89. Alcuni, come Ralf Dahrendorf, sono rassegnati: nell'89 Dahrendorf aveva visto una rivoluzione - dunque una rottura netta con il comunismo - e adesso constata che solo alcuni passeranno il ponte, solo chi è «ancorato in Occidente e nella cultura politica europea». Questo ancoramento la Russia non ce l'ha, e pretendere da essa democrazia e capitalismo rapido «è stato un errore enorme, e irresponsabile» [Repubblica, 7 ottobre). Altri non si rassegnano, sono piuttosto delusi, e tanto più si indignano con Eltsin: sciogliendo illegalmente il Soviet Supremo, il Presidente avrebbe provocato la legittima reazione dei parlamentari, e la fine sanguinosa di una democrazia debole ma già esistente. E' la tesi di parte delle sinistre occidentali, ma anche di alcuni ex dissidenti come Vladimir Maximov e Andrej Siniavski, lo scrittore che ha accusato Eltsin di neobolscevismo, e che tende a dargli il nome di Pinochet russo (Lo Stampa, 20 ottobre). Indignati e rassegnati non hanno le stesse idee ma concordano su un punto: non è democratica, la maniera in cui Eltsin promette di seppellire il comunismo. Non è fedele allo spirito dell'89, che fu non violento e presupponeva una transizione lenta, senza regolamenti dei conti, da 75 anni di totalitarismo allo Stato liberale. Il '93 avrebbe divorato l'89, la guerra contro il comunismo avrebbe soppiantato la strategia democratica e tollerante imboccata quattro anni fa sotto la direzione di Gorbaciov. Questo non si perdona a Eltsin: di essere il grande disingannatore, il demistificatore di quella che era divenuta una data feticcio, intoccabile e luminosa, nella storia tuttora molto oscura, e niente affatto rivoluzionaria, del post-comunismo. Non gli si perdona di aver svelato le ambiguità oltreché le illusioni dell'89. Nella sostanza, non gli si perdona di procedere allo stesso modo in cui le potenze vincitrici procedettero contro la Germania hitleriana nel '45: non democraticamente ma autoritariamente, non rispettando le leggi tedesche esistenti ma vietando giornali e organizzazioni naziste in nome di una nuova legalità democratica, non ancora scritta. Messi sullo stesso piano, nazismo e comunismo son condannati a subire un'analoga sorte, e un analogo giudizio: ambedue sono partiti in guerra contro l'Occidente, o contro il proprio popolo, e da questa guerra non si esce senza che il vinto sia dichiarato vinto. L'89 ha evitato questo scoglio, con la scusa che veramente democratico era dare un premio ai comunisti di cui ci si voleva sbarazzare, e negoziare con essi in tavole rotonde - la transizione. La tavola rotonda è il dispositivo centrale della politica di Gorbaciov, e quasi ovunque ha permesso alle vecchie nomenklature di mantenere uno o tutti i poteri determinanti: economico e bancario, giudiziario e politico. Questo vuol dure che la democrazia nella sua versione gentile e dialogante non è lo strumento per uscire dal totalitarismo. Che inizialmente è richiesta una rottura imposta autoritariamente: una rottura con i partiti e i giornali del vecchio regime con le sue idee, le sue normative, la sua costituzione. Questo seppellimento definitivo è difficile da digerire, non solo per i comunisti ma anche per un certo tipo di liberalismo economico, che ha dimenticato che la democrazia non è solo quella che Donoso-Cortés chiama clasa discutidora, libera espressione di tutte le passioni, ma che è anche governo e correzione di tali passioni, che presuppone l'esistenza di uno Stato abbastanza forte da poter impartire ordini efficaci, ed essere volontariamente obbedito. Questa forma-Stato e questo principio di autorità sono oggi fortemente contestati, soprattutto in Italia, e non a caso proprio da noi si ha il seguente paradosso: la difesa incondizionata di un Soviet Supremo nomenklaturista, e la simultanea delegittimazione del Parlamento italiano. La convivenza di due passioni così contrarie è possibile in Paesi dove lo Stato e il governo in se stessi sono contestati. Poco importa, da questo punto di vista, quel che farà Eltsin in futuro. Importa quel che ha già dimostrato: che la fuoruscita dal comunismo non può essere la transizione anfibia che è stata. Che si può essere clementi ma non democratici con chi ha spento la democrazia per più di mezzo secolo. E che sì, «l'ancoraggio alla cultura politica occidentale» può aiutare ma a condizione di specificare quale cultura europea, quale Occidente sono indicati come modello. L'Occidente ha inventato il liberalismo politico ma anche i regimi assembleari, il consociativismo, le tavole rotonde che bloccano interminabilmente la decisione. Non è necessariamente occidentale, forse, la strada che condurrà la Russia in Occidente e nella democrazia. Con queste domande mi sono rivolta ad alcuni esponenti di rappresentanti dell'emigrazione russa a Parigi: a Siniavski in primo luogo dopo l'attacco a Eltsin, e anche a Michel Heller, storico dell'Urss e della Russia, e a Irina Alberti, direttrice della rivista d'emigrazione Pensiero Russo. La tesi di Siniavski è chiara: Eltsin «ha violato le leggi, sciogliendo il Soviet Supremo, ed è naturale oltreché legittimo che quest'ultimo si sia ribellato». Eltsin lo ha costretto alla violenza, i parlamentari in fondo «non chiedevano altro che il diritto di esprimersi alla televisione». L'ex dissidente non muta opinione quando obietto che i parlamentari erano armati e non chiedevano semplicemente la parola; che la legge infranta da Eltsin è quella sovietica, non più valevole per la Russia. E che non si può parlare di Parlamento a proposito del Soviet Supremo perché quest'ultimo è una creatura del vecchio sistema, e grazie alla Co¬ stituzione sovietica aveva raggruppato tutti i poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) a suo tempo detenuti dal partito. «Lei mi fa queste obiezioni come se da una parte ci fosse Eltsin il democratico, e dall'altra i comunisti e i neofascisti. Ma le cose non stanno così. La verità è che tutti sono comunisti, e che il più bolscevico è Eltsin: per il modo in cui si sbarazza degli avversari, per come attua tutte le sue riforme, per decreto; per il disprezzo mostrato nei confronti di un Parlamento che pure lo aveva fatto re». In realtà non è stato il Soviet Supremo a farlo re, ma la volontà popolare: Eltsin ha conquistato la sua legittimità in un'elezione diretta, più libera delle elezioni che hanno nominato il Soviet Supremo, e inoltre ha rotto nel '90 con il partito. Ma Siniavski nega a El- tsin sia la legittimità, sia la sincerità anticomunista: «Opponendosi al Parlamento si è messo nell'illegalità. E restringendo l'espressione di tutte le forze, ha invalidato le future elezioni. Il Parlamento nuovo non sarà meglio, meno comunista, del primo. Quanto alla rottura di Eltsin con il partito, e alle sue azioni contro la presenza dei comunisti nelle imprese, non si tratta che di illusionismo. Gorbaciov ha fatto molto di più: ma con gli atti, non con le parole. E' il suo metodo che ha funzionato, non lo scontro voluto da Eltsin: il metodo delle tavole rotonde. Il metodo di Mazowiecki che nell'89 ha detto: cancelliamo il passato con un grande tratto di penna, perdoniamo e negoziamo. Altro modo di uscire dal comunismo non c'è, visto che non c'è stata guerra esterna come contro la Germania. Io sono contro Rutzkoi e contro Eltsin, ma il più colpevole è comunque chi ha il potere, cioè Eltsin». E' questa argomentazione che Irina Alberti contesta, radicalmente: «Dire che il comunismo non si può vincere significa di fatto assolverlo, dimenticare quel che lo accomuna al regime nazista, rinviare il momento decisivo in cui si può dire: nella guerra condotta per settantacinque anni contro il proprio popolo, i comunisti hanno perso definitivamente». Egualmente severo è Heller. Per lo storico russo tutta la discussione attorno a democrazia e Parlamento offeso è «inconsistente, sentimentale, non serve a capire le difficoltà reali del post-comunismo, che sono istituzionali e vanno analizzate freddamente*. «Bisogna capire che la Russia vive una sorta di ripetizione dell'Età dei Torbidi: con rottura della legittimità dinastica, con trionfo dell'anarchia e il potere che è nella strada, a disposizione. Ai tempi di Boris Godunov, era la legittimità dinastica degli zar che era scomparsa; oggi abbiamo una rottura dinastica simile, con la scomparsa dello scheletro di Stato incarnato dal partito comunista. In Russia non si tenta quindi di costruire una democrazia, oggi. La priorità assoluta è di ricostruire lo Stato. Tanto meglio se quest'ultimo sarà democratico, ma per il momento si tratta di installare una nuova struttura di potere, che riempia il vuoto anarchico causato dalla fine delle vecchie strutture. Se non si fa questo tutto si disgregherà. Se il centro della Russia non si rafforza, le periferie entreranno in ebollizione e Mosca sarà presa dal panico. D'altronde è l'autorità che chiedono i russi, la democrazia la desiderano ma più di tutti vogliono la legge, e l'ordine. Eltsin è perfino troppo debole dal loro punto di vista». E Heller continua: «Certo i dirigenti russi son tutti figli del comunismo, anche se Eltsin è già un ibrido - un po' è homo sovieticus, un po' homo democraticus, cosa particolarmente sgradita agli occidentali. E' anche indubitabile che il nuovo Parlamento resterà dominato da uomini del vecchio regime. Precisamente per questo tuttavia è essenziale sostituire la vecchia legalità con una nuova, le vecchie strutture di potere e la vecchia Costituzione con nuove strutture e nuove istituzioni. I futuri parlamentari non saranno forse demo¬ cratici ma almeno le strutture di potere e le istituzioni cominceranno ad esserlo. E lentamente, grazie ai vincoli imposti dalla nuova Costituzione e dalla nuova divisione dei poteri, l'uomo sovietico si educherà, si abituerà a divenire democratico. Questa sembra essere la scommessa costituzionale di Eltsin e per questo lo approvo. Il suo decreto che ha sciolto il Parlamento è stato chiamato colpo di Stato. Ma è insensato parlare di colpo di Stato e di fine dello Stato di diritto, quando lo Stato è assente. In realtà il suo è stato un colpo anticomunista, e questo è apparso intollerabile. E' apparso intollerabile a tutti coloro che avevano puntato sulla strategia gorbacioviana delle tavole rotonde, che volevano uscire dal comunismo senza vincitori né vinti. La protesta di Siniavski da questo punto di vista è disonesta: se davvero è contro i comunisti, come dice, non dovrebbe abusare così palesemente del linguaggio democratico, prendendo il Soviet Supremo per un Parlamento occidentale e continuando a puntare su Gorbaciov». Anche su Gorbaciov il giudizio di Heller è duro: «E' per salvare il comunismo che Gorbaciov ha fatto concessioni, si è messo a imitare il linguaggio democratico. Il comunismo per lui era come una mongolfiera: per farla volare occorreva gettare sempre più zavorra, ed è quello che Gorbaciov ha fatto. I risultati di questa operazione sono stati positivi, ma non erano nei suoi obiettivi. Quel che Gorbaciov veramente voleva, non l'ha ottenuto». Resta da sapere se il passaggio al capitalismo è troppo rapido, come sostengono Dahrendorf e le sinistre occidentali - e se c'è incompatibilità di fondo tra la Russia e la democrazia. Heller lo nega - il «capitalismo istantaneo» fa male ma è obbh'gatorio per rompere con i passati modi di produzione; la restaurazione dello Stato forte è «necessaria anche se non sufficiente alla democrazia» - e critica la strana alleanza prò Gorbaciov, così potente soprattutto in Italia, fra comunisti e capitalisti disabituati a rispettare lo Stato. «Ma il capitalismo si è comportato sempre in maniera strana con i sovietici - osserva Heller -, ha cercato di strappare favori ad hoc e dopo il '45 ha ottenuto che regnasse a Est la stabilità totalitaria. Ma c'è qualcosa di più: il capitalismo ha sempre avuto una sorta di odio di se stesso, ha stretto sempre strane alleanze con l'mtelligencija anticapitalistica. E' sempre stato affascinato dai propri nemici. Ora i capitalisti occidentali sono tutti scombussolati, e ripetono: non vinceremo mai, in Russia. Il capitalista in Occidente è psicologicamente labile: sempre attende di esprimere quest'odio di se stesso, sempre aspetta speranzoso che nasca il "vero nemico" del capitalismo. Eltsin è un personaggio che non riesce ad afferrare. Gli occidentali preferiscono l'homo sovieticus, e se quest'ultimo imita il linguaggio occidentale e veste all'italiana, come Gorbaciov, saranno deliziati». Ma a forza di aspettare e sperare «il nemico tornerà», conclude Heller. Tornerà ineluttabilmente: croce e delizia di un Occidente che non sa curare le proprie malattie. Barbara Spinelli Alberti: «Guai ad assolvere il comunismo» Heller: «In Russia una nuova Età dei Torbidi» ar o primo democratico? La tavola rotonda è il dispositivo centrale della politica di Gorbaciov, e quasi ovunque ha permesso alle vecchie nomenklature di mantenere uno o tutti i poteri determinanti: economico e bancario, giudiziario e politico. Questo vuol dure che la democrazia nella sua versione gentile e dialogante non è lo strumento per uscire dal totalitarismo. Che inizialmente è richiesta una rottura imposta autoritariamente: una rottura con i partiti e i giornali del vecchio regime con le sue idee, le sue normative, la sua costituzione. Questo seppellimento definitivo è difficile da digerire, non solo per i comunisti ma anche per un certo tipo di liberalismo economico, che ha dimenticato che la democrazia non è solo quella che Donoso-Cortés chiama clasa discutidora, libera espressione di tutte le passioni ma che è anche MOSCA Gli indignati e i n Germania. Io sono contro Rutzkoi e contro Eltsin, ma il più colpevole è comunque chi ha il potere, cioè Eltsin». E' questa argomentazione che Irina Alberti contesta, radicalmente: «Dire che il comunismo non si può vincere significa di fatto assolverlo, dimenticare quel che lo accomuna al regime nazista, rinviare il momento decisivo in cui si può dire: nella guerra condotta per settantacinque anni contro il proprio popolo, i comunisti hanno perso definitivamente». Egualmente severo è Heller. Per lo storico russo tutta la discussione attorno a democrazia e Parlamento offeso è «inconsistente, sentimentale, non serve a capire le difficoltà reali del post-comunismo, che sono istituzionali e vanno analizzate freddamente*. «Bisogna capire che la Russia vive