Sfida a tre per il nuovo «re» dei 7 Colli di Pierluigi Battista

Cene e interviste televisive al posto dei vecchi comizi ROMA. Il verde Rutelli (appoggiato da Segni e pds) contro Fini (msi) e il prefetto Caruso (de) Sfida a tre per il nuovo «re» dei 7 Colli Fioriscono i comitati elettorali, partiti mimetizzati CROMA IAK, si rigira «Un americano a Roma». Solo che stavolta la fervida immaginazione di Nando Moriconi non si nutre più di simulacri da bulletto squattrinato e ingenuo «de Kansassiti», come sillabava Albertone Sordi. E dunque niente più esotiche mostarde al posto di pastasciutte nostrane, né movenze e tic da John Wayne e nemmeno «ciao marni, ciao papi». Stavolta Sordi-Moriconi vuole fare il sindaco. Si è dirozzato. Ha assimilato la mitologia spuria del look e dell'apparenza. Si è trasformato in animale perfettamente a suo agio nella giungla metropolitana. Ha insomma compreso che in una città che come in una dissolvenza da incubo ha smarrito 'insieme identità e carattere, l'unico appiglio che rimane, l'unica bussola che non tradisce è quella della faccia. Faccia giovane, possibilmente: proprio come nei film americani che narrano le intrepide scalate del candidato ideale. Faccia possibilmente rassicurante. Possibilmente ecumenica, smagliante, radiosa, incoraggiante. Faccia che sappia catturare il «cittadino romano». Non nel senso classico di civis romanus. Ma in quello che si è venuto configurando nel collasso di ogni appartenenza riconosciuta e stabile, di qualsiasi spirito di gruppo in qualche modo strutturato e cosciente di se medesimo, vincolato a un principio di socialità, a un legame di categoria, di fierezza municipale, di ideologia, di credo religioso, anche di interesse. «Cittadino romano»: entità astratta e disincarnata sorta sulle ceneri dei partiti; individuo presumibilmente solitario, risentito, diffidente, esacerbato e sperduto in una metropoli di cui non si vedono i confini. Nuovissimo totem che i candidati avvertono il bisogno primario di scovare e decifrare. Anche con l'ausilio di appositi sensori debitamente mutuati dall'immaginario cinematografico ovviamente di conio americano: i «comitati elettorali». Facce più comitati elettorali: ecco la formula delle prime elezioni romane in cui si vota direttamente il sindaco. La faccia modernamente tranquillizzante del favoritissimo Francesco Ruteni, per esempio, associata a un comitato che ne rispecchia fedelmente i connotati. Acquartierato in un'area di tradizione borghese euforicamente giovanilista, ecologista, nuovista, il comitato dei 25 volontari che vogliono portare l'esponente Verde in cima al Campidoglio lo vedi arrabattarsi in un'attività cruciale (e inedita) nell'Italia del dopo Tangentopoli: il reperimento di fondi, 300 milioni, devono raggiungere. Come? Prima di tutto con le cene elettorali, presentate da tutti i candidati come fossero l'assoluta novità della stagione. Centomila lire a cranio per un pasto che costerebbe la metà, se di mezzo non ci fosse la Causa. Cena elettorale: ossia perfetta fusione di loisir e impegno, di convivialità e militanza. La politica, quella sotterranea ed estenuante nei suoi imperituri riti di mediazione e di scambio, resta in cucina mentre i commensali brindano. E nella cucina della politica c'è da dosare sapientemente gli ingredienti che possano render saporita la pietanza rutelliana. C'è l'abito variopinto di Alleanza democratica da cucire: i progressisti di Adornato, più i Popolari di Segni e San Mauro, più i Verdi, più i cristianosociali di Camiti, più i socialisti di Benvenuto, più i liberali di Battistuzzi, più i repubblicani. I repubblicani: qui casca l'asino. Perché una frangia di repubblicani che più o meno fa capo a Bruno Visentini e Oscar Mammì (e anche a Spadolini) ha deciso di non immolarsi sull'altare di Alleanza e di correre per sé, a inseguire l'inafferrabile Centro con la faccia e il cognome di Vittorio Ripa di Meana, che ancora non si è munito di un suo proprio «comitato elettorale» ma che in compenso ha alle sue spalle un comitato di sponsor che vanno da Giuliano Amato a Giuseppe De Rita. E poi l'appoggio del psi di Del Turco, vuoi mettere? Eh sì, perché il paradosso è che i partiti, pur esistendo e persistendo sottotraccia, devono far finta di non esistere, come se Roma fosse l'America. Non è fine che si facciano avanti, non è conveniente che appaiano invadenti e arroganti. Ed è bene che si mimetizzino. Tanto che perfino Gianfranco Fini, che di un partito è addirittura segretario, si candida come «persona» e non come leader del msi. Faccia giovane, anche quella di Fini. I poster che sono appiccicati sugli appositi spazi comunali si rivolgeranno al Cittadino romano con il volto di un Fini sorridente ma non troppo, preoccupato ma non tanto. Il tutto senza la Fiamma, che fa troppo partito, e con la scritta: «Fini, la persona». E sebbene il segretario missino disponga di collaudate strutture di partito, anche lui non ha voluto negarsi il piacere e l'immagine gratificante di un «comitato elettorale», da spostare in un appartamento al Pantheon perché non sta bene tenerlo nei locali del msi di via della Scrofa. E dove si mette a punto la coreografia di una candidatura che, come dimostrano tutti i sondaggi, sta creando più di un grattacapo alle potenze del Centro dopo che è riuscita ad accaparrarsi nientemeno che una frangia dei Popolari di Segni rappresentata da Enzo Savarese. Una coreografia naturalmente, obbligatoriamente molto americana: la cena, sempre lei, al posto del comizio, tre minuti strappati a una tv locale anziché il consueto volantinaggio. E una «convention», dicono proprio così, che sostituirà l'almirantiana adunata missina a Piazza del Popolo con una festosa kermesse al Palaeur. Partiti? Via, messi in un angolo. Quando deve fare il nome di un suo sostenitore, Fini non esita a rispondere: «Enrico Ameri, la voce più amata dei calciomaniaci via radio», ossia l'impoliticità stampata su un vessillo. Per il momento anche Rutelli cerca di non nominare invano il nome del pds, paura di uno sponsor che rischia di apparire troppo ingombrante agli occhi del «cittadino romano». Al quale Ruteni, come inedito strumento per finanziare la sua campagna, ha proposto una lotteria, ultima invenzione del suo immaginifico «comitato elettorale». Sorridono un po' imbarazzati, i volontari del comitato di Ruteni che pronunciano il nome di via delle Botteghe Oscure. Come infastiditi dal ritorno del rimosso, dal riaffiorare di riferimenti antichi che mettono in crisi un clima da anno zero, da ricominciamento assoluto che se potesse abolirebbe con un tratto di penna persino i tradizionali ancoraggi della toponomastica politica. Una specie di cupio dissolvi in sordina che si manifesta nella ripetizione ossessiva di parole chiave del lessico della nuova politica («società civile» e «cittadini», «trasversalità» e «competenza») e che non sa più riconoscere le categorie, le parole, le appartenenze che dominavano fino a ieri. Hai voglia per esempio a intonare i primi versi del nuovo inno del Papa: «O felice Roma. O Roma nobile./ Sede sei di Pietro, che a Roma sparse il sangue,/ di Pietro, cui sono date le chiavi del Regno dei Cieli». Hai voglia, per i volonterosi candidati, moltiplicare gli incontri segreti con gli emissari d'Oltrete- vere, tutto un fruscio di tonache che non può non richiamare l'eco di tante campagne elettorali che hanno preceduto l'anno zero, e tutto per assicurarsi l'appoggio di quell'entità oramai inafferrabile, multiforme, variegata che va sotto il nome di «mondo cattolico». Roma Cattolica e Apostolica, il faro della cristianità, la città protetta da Dio, quale enigma nasconde? Senti lo staff di Rutelli e capisci che per lui il «mondo cattolico» è la speranza nella comunità di Sant'Egidio e in don Di Liegro. Senti Fini e capisci che per lui conta la tradizione nera e papalina che non ha mai lesinato cordialità ai movimento sociale. Senti Carmelo Caruso, l'uomo del Centro, e capisci che per lui il «mondo cattolico» è un'incognita, un punto interrogativo, un blocco che forse si è sgretolato, atomizzandosi in tanti frammenti di «cittadini». 0 forse no, ma che ne può sapere il «cre¬ dente ma laico», la definizione è sua, Carmelo Caruso? Lui, il prefetto di ferro, il suo «comitato elettorale» l'ha tirato su quando ancora la candidatura era incerta e nebulosa. I maligni dicono che il suo nome è tutto farina del sacco di Mino Martinazzoli. Lui smentisce, o meglio attenua, e afferma che Martinazzoli è venuto soltanto dopo il provvidenziale intervento naturalmente della «società civile» che lo avrebbe voluto proprio nel posto in cui attualmente si trova. Arrivano le facce giovani, e lui si presenta come la «faccia della garanzia». E quanto i comitati elettorali degli altri concorrenti si presentano fragorosi e multicolori, così quello di Caruso appare volutamente grigio e dimesso, saggio e di basso profilo. Un sapore d'ordine, per così dire, rafforzato da quel sentore «viminalesco» che emana da uno staff in cui spiccano consiglieri giuridici del ministro dell'Interno come Marco Di Raimondo ed ex vicecapi della polizia di Stato come Raffaele Santoro. Tutto un universo di pragmatismo, di efficientismo dal volto umano, di tecnicità giocata contro le verbosità e le elucubrazioni della «vecchia» politica che conferiscono a Caruso, ma del resto è proprio questo l'«obiettivo d'immagine» del comitato elettorale, l'aria inconfondibile del sagace amministratore di condominio, tutto fatti e niente svolazzi, pulito, rassicurante. Anche lui, malgrado l'anagrafe, decisamente «nuovo». E certo che sta sudando sette camicie, Caruso, per allontanare il pessimo ricordo di sé lasciato dal partito, la de romana fino a ieri do- minata da Vittorio Sbardella, che rappresenta il suo maggiore serbatoio elettorale. Fatica innanzitutto per tenere i partiti a ragionevole distanza. Talmente faticosa, come impresa, che persino il prefetto efficiente ed empirico deve inventarsi elaborate formule magiche per entrare in contatto con i «cittadini» irraggiungibili: «Io voglio fare così: entro in contatto con tre persone che mi sostengono, che a loro volta amplieranno il raggio fino a trentatré, e da questi ultimi a trecentotré. E così via». Misteri cabahstici che segnalano le difficoltà di una campagna da far tremare i polsi persino a un uomo che conosce a menadito i meccanismi dello Stato. E allora ecco il prefetto ripiegare, anche lui, sulla novità della stagione 1993: la cena elettorale. E poi lo spettacolo al Tendastrisce, con tanto di esibizione di Luca Barbareschi e del mago Silvan: un raggio di luce sullo stile, sull'immagine, anche sulla sensibilità estetica che trasuda dalla candidatura Caruso, tutta diversa da quella che ispira l'entourage rutelliano, che in uno dei locali più in voga della capitale, il Palladium alla Garbatella, può esibire invece il sostegno del gruppo di Avanzi, avanguardia riconosciuta della sinistra emotiva, moderna e spiritosa. E tutta diversa anche dallo stile di Renato Nicolini, il candidato che a sinistra darà molti problemi a Rutelli e che è portatore, lui che ha 51 anni, di un giovanilismo di tutt'altro genere, trasandato e grunge, metropolitano e metanico. E anche un po' nostalgico, a giudicare dalle frotte di orfani della sua celeberrima Estate Romana pronti a scommettere sull'uomo che rinverdisce nella memoria i fasti dell'ormai lontanissima giunta di sinistra. E anche forse l'unico, lui che con la sua immagine sbarazzina e irriverente se lo può permettere, a non aver paura della «vecchia» politica, dei vessilli consunti, delle parole d'ordine rétro, dei richiami a un'appartenenza forse vissuta con snobistica fedeltà. E poi ci sarebbe la Lega. Il leghista «eretico» e non riconosciuto dalla casa madre, Giulio Savelli, che pure lui ha voluto impiantare un «comitato elettorale» su misura, fax e telefono tutto compreso. E la leghista doc, Maria Ida Germontani, che neanche è arrivata e già sembra aver appreso la lezione delT«americano a Roma», tutto look e riconoscibilità d'immagine, dichiarando al mondo la presenza dei suoi quattro bassotti di nome Raissa, Bettino, Achille e Leoluca e manifestando la sua preferenza per l'autobus contro l'odiato «motorino di Rutelli». Simboli contro simboli, gadget contro gadget. E certo che ci sarebbero anche gli interessi contro gli interessi, i gruppi contro i gruppi. Le lobbies, i clan, le categorie, i potentissimi bottegai. Ma questa è roba «vecchia», inaccostabile. Chiamiamola invece, per amore del nuovo, «società civile». Pierluigi Battista Cene e interviste televisive al posto dei vecchi comizi Sopra, il Campidoglio a sinistra Rutelli a destra Fini