Il regista, a Parigi, ci parla del suo film e della grande avventura in Oriente

«Mi ha colpito l'agonia di Fellini, se n'è andato piano come un Lama» Il regista, a Parigi, ci parla del suo film e della grande avventura in Oriente PARIGI DAL NOSTRO INVIATO Gran semplicità, grande spettacolo. Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci, presentato in anteprima mondiale a Parigi, accosta America e India. Segue due storie: quella contemporanea di un bambino americano ritenuto l'incarnazione d'un rispettato Lama e portato da monaci buddhisti tibetani a studiare nel loro monastero, accompagnato dal padre; e quella del 563 avanti Cristo, raccontata al bambino come una favola, del principe Siddharta, ricco e splendido figlio di re della stirpe Gotama, che, toccato dalla rivelazione del dolore del mondo, abbandonò lusso e privilegi, si fece eremita, studioso, penitente, vide meditando la via per eliminare la sofferenza e da allora fu il Buddha, cioè l'Illuminato. Gran momenti: Keanu Reeves-Siddharta, stupendo e luminoso, portato in fastosa processione, tentato da un identico se stesso personificazione di quell'Ego che è il male interiore, assediato da fulmini, saette, venti, corrusco scatenarsi del mare e del cielo, sterminati eserciti avanzanti, frecce infuocate: e poi rinfrescato da una pioggia di petali di rosa, avvolto dal bagliore radioso della consapevolezza. La faccia del Lama Ying Ruocheng né allegra né triste, benevola e quieta come quella d'un neonato sano e sazio. Il fatale folclore irresistibile di monaci giallorossi, mendicanti cenciosi, cupole con occhi spalancati, strumenti musicali abnormi, capre che ridono e che piangono. I caldi colori della terra a Katmandu e i toni algidi della tecnologia a Seattle, la mistica asiatica e la crisi economica americana. Bambini ignoranti e sapienti, contemplazione estetico-estatica, predicazione didattica, effetti specialissimi. Bernardo Bertolucci porta una collana di fili di cotone, stretta come un cappio, rossa come la traccia d'una decapitazione, che è invece un segno di protezione. Cosa c'è di più suo e di più personale, in «Piccolo Buddha»? «E' la fine d'una esperienza, l'ultimo di tre film orientali, dopo L'ultimo imperatore e II tè nel deserto. E' la sintesi di quello che ho fatto, delle idee circolanti nei mondi in cui ho vissuto negli ultimi dieci anni. Non avrei potuto stare in Italia, dal 1984 in poi: e il perché lo capisco meglio adesso che tutto è esploso, anche se ancora manca un esame di coscienza collettivo, se ancora non abbiamo capito che mettere alcuni in galera non basta, se noi stessi non cambiamo. Il terreno su cui s'è costruito il nostro disastro è il cinismo. Il vero demone italiano è il cinismo, e spero che in Piccolo Buddha non ci sia ombra di cinismo. Ma ora che qualcosa può cambiare voglio tornare a lavorare in Italia, ho bisogno di ritrovare la mia identità. Penso a un film contemporaneo di sentimenti privati, piccolo, aereo, leggero, da girare in Toscana; poi m'aspetta l'impegno più grande de La condizione umana, tratto dall'opera di André Malraux; e per fine secolo ho un altro sogno, aggiungere a Novecento una terza parte sulla storia dell'Italia repubblicana». A chi consiglierebbe di vedere «Piccolo Buddha»? «Ai bambini. Non consiglierei a nessun bambino d'andare a ve dere nessun altro mio film: questo invece è una favola, una storia raccontata a bambini (o alla puerile ignoranza occiden tale del buddhismo) e vissuta da protagonisti bambini. Naturalmente si poteva fare più difficile, più colta, più filosofica mente raffinata, più indirizza ta agli intellettuali. Ma io, non lo nascondo, voglio rivolgermi a milioni di persone, a un pubblico sterminato: in Occidente come in Asia, dove l'interesse per la figura del Buddha è grande e dove, in certi Paesi, L'ultimo imperatore è come Via col vento. Per questo ho voluto parlare con semplicità: e con il cuore, con le emozioni. Ho sempre avuto tendenza a scivolare nel respiro epico: stavolta c'è in più una sfida all'amato cinema hollywoodiano, che mi pare ci vada schiacciando con il peggio di quanto sa fare». Cosa l'ha interessata del buddhismo? Una religione senza dogmi, senza divinità e senza intolleranze, dopo la caduta delle ideologie, degli idoli e dei leaders politici in Occidente? «Una religione senza Dio. La storia di uno che duemilacinquecento anni fa, nascendo in un contesto religioso popolato da venti milioni di divinità, ha detto basta e ha messo l'uomo al centro di tutto. Ho passato due anni con i Lama del buddhismo tibetano. Ho ammirato la loro capacità di andare oltre la dualità, la contrapposizione tra bene e male, per arrivare all'interdipendenza tra gli uomini, ciascuno organo dello stesso universo. Sarebbe una grande terapia, per società come le nostre». Non ha pensato piuttosto all'Islam, che oggi ci condiziona così fortemente? «Ma io non volevo affatto raccontare una religione. Tanti anni fa avevo sfiorato Milarepa, il santo e poeta tibetano la cui biografia era il dono riservato da Elsa Morante agli amici (una sua parabola era citata già in "Prima della rivoluzione"). Pochi anni fa un produttore nippoamericano buddhista mi ha proposto una biografia del Buddha. Non m'interessava: non esistono fonti né testi, non puoi fare la biografia d'una leggenda. Puoi narrare una favola, questo sì. Ma Piccolo Buddha è cominciato davvero quando sono andato a trovare il Dalai Lama a Vienna: avevo bisogno del suo permesso, per via del suo esilio e della situazione politica in Ti- bet, son faccende delicate. Gli ho detto che non ero buddhista né cattolico, che, secondo la battuta di Bunuel, "grazie a Dio sono ateo". Mi ha detto: "Perfetto. Soltanto lei può fare la storia del Buddha". Il Dalai Lama parla spesso di compassion: non so come tradurre bene la parola in italiano, forse con empatia o simpatia, o con carità nel senso che San Paolo dava al termine. Sono uscito da quel colloquio in uno stato di eccitazione quasi frenetica: avevo capito che la bontà, sino allora per me pochissimo interessante, era qualcosa di assai complesso; per la prima volta avevo pensato all'intelligenza della bontà. Con Piccolo Buddha ho cercato non di insegnare, ma di passare agli altri quello che avevo imparato, l'emozione che avevo vissuto». Il suo film non nasce anche dalla cronaca, da personaggi davvero esistenti? «Certo: di bambini o ragazzi occidentali considerati reincarnazioni di grandi Lama ce ne sono parecchi. Cinque sono americani: uno l'ho conosciuto, ha ventidue anni, si chiama Dylan perché venne concepito a Woodstock mentre Bob Dylan cantava, vive tra un monastero nel Nepal e la casa di sua madre ad Halifax, è un ragazzo un po' post-hippy, molto dolce, molto speciale. Un altro è un bambino spagnolo, si chiama col nome tibetano Osel (vuol dire Chiara Luce); Hita Torres è il cognome di suo padre, muratore in un posto vicino a Granada; il suo tutore è un monaco buddhista spagnolo, Juan, che pare un personaggio di Almodóvar. Ho incontrato pure Osel. M'è parso un bambino assai compreso del suo ruolo ma anche annoiato: "Sto in un monastero tutto di vecchi", m'ha detto». Strano: oltre che nel suo film, si parla molto di bontà e d'amore per gli altri anche in «Film blu» di Kieslowski o in «Cosi lontano, così vicino» di Wim Wenders: sarà un modo di reagire all'imbarbarimento contemporaneo? «Lei cita tre registi che, pur avendo fatto film "unici", sono servitori della realtà. E' la realtà a suggerire i bisogni, i sentimenti, gli antagonismi, le reazioni del momento». In «Piccolo Buddha», il Lama istruttore del bambino americano muore molto lentamente, per gradi, e le sue ceneri raccolte in una ciotola fluttuano molto a lungo sul mare. E' un modo per dire che i nostri vecchi padri e maestri impiegano molto tempo a scomparire? «Sono stato da poco in Italia, e di tutto quello che succedeva (servizi segreti, golpes militari, Mata Hari, generali felloni, miliardi, tutto) l'agonia di Fellini era la cosa più straziante, e insieme l'unica che restituisse il senso della realtà. Ho pensato che se ne andava come un Lama, che era entrato in uno stato di premorte insegnandoci quanto sia importante l'inconscio: ci sono macchine per controllare il cuore o il respiro, ma esiste una macchina per misurare l'inconscio?» Il buddhismo va sempre più diffondendosi in Occidente: fenomeno rischioso, secondo lei? «Rischioso? Magari si diffondesse. Anche in Piccolo Buddha c'è qualcosa di cui poco sappiamo e che non potrebbe farci che bene. Da quando ho conosciuto i Lama, spendo molto meno in tranquillanti». Lietta Tornabuoni «Da quando ho conosciuto il buddhismo uso meno tranquillanti» «Mi ha colpito l'agonia di Fellini, se n'è andato piano come un Lama» g,pa de suo film e dea gande avventura in OeSHHI Sopra Keanu Reeves, protagonista del film; in alto una scena e qui accanto Bertolucci