Orefice: io spione? Calunnie di Fabio Martini

GIORNALISTI Orefice: io spione? Calunnie «Mipagavano l'abbonamento alla velina» GIORNALISTI «007»? IROMA L cappellino verde scozzese è lì al suo posto, il trench è appeso all'attaccapanni ma lui, Vittorio Orefice, il «re della velina», per una volta non c'è. La sua eterna scrivania nella sala stampa di Montecitorio è vuota. Strano, stranissimo, sono le sei della sera e questa è l'ora in cui - caschi il mondo - il farfallino più popolare d'Italia è al suo posto a dettare la «velina», una raccolta ragionata delle notizie politiche di giornata che poi finisce a tutti i giornali. Orefice è finito in «Corea», il Transatlantico dei poveri, un corridoio gelido, appartato, dove ogni tanto va a dormire Giancarlo Matteotti, il figlio più estroso del martire socialista. Gessato grigio, papillon blu a pois rossi, Orefice si sta discolpando davanti ai vertici dell'Associazione stampa parlamentare, sta spiegando che il sospetto che aleggia su di lui di essere uno spione «è una mascalzonata», spiega che la sua «velina» è regolarmente «iscritta al Tribunale e alla Camera di commercio», che i compensi che riceve «dal ministero del- l'Interno» e «non dai servizi» sono «regolarmente registrati». Ma eccolo, finalmente, «papillon»: lui, sempre così imperturbabile davanti al crollo dei suoi amici democristiani, davanti a tutti i terremoti politici («La Lega? Basterà un po' di brillantante...», disse prima del 5 aprile), stavolta ha gli occhi rossi e le guance infuocate: «Io - spiega Orefice - questa gente dei servizi non l'ho mai conosciuta, non ho mai avuto rapporti. Il solo sospetto mi umilia». E ancora: «Denuncerò per calunnia chiunque colleghi la mia attività con un rapporto prezzolato con i Servizi». E poi che beffa: nella giornata nera delle «veline» e nel suo giorno più difficile, Orefice finisce accomunato, oltreché a Domenico Bruno (già uomo-stam¬ pa di Giuliano Amato e di Salvo Andò), anche al suo amico-nemico Enrico Benso, redattore della «velina dei poveri» e personaggio originale, uno dei più pittoreschi della sala stampa di Montecitorio. Un anno fa, una mano anonima, sapendo della rivalità tra i due, infilò sotto il vetro della scrivania di Orefice una poesia che così diceva: «La velina che fa Benso / dà notizie senza senso / Leggi quella di Carloni / e ti rompi li cojoni / Quando arriva la Vittoria (quella di Orefice, ndr) / leggi pagine di storia». Basso, corpulento, alla Camera da 39 anni, noto per la sua abitudine di tastare i supplì della buvette prima di mangiarne uno, Benso deve la sua «fama» di giornalista ossequioso con i potenti ad un episodio entrato nella leggenda. Anni Sessanta, cortile di Palazzo Chigi: sta arrivando Aldo Moro, allora presidente del Consiglio e Benso si inchina, sussurrando: «Eccellenza...». Ma nell'inchinarsi, sbatte il cranio contro la portiera dell'autoblù. Un sequenza irresistibile che Benso chiude così: «Mi scusi se l'ho ammaccata...». Anche Benso ieri è stato sentito dai vertici dell'Associazione stampa parlamentare e ha ammesso di avere preso dei soldi dai servizi. «Sì - racconta lui stesso - ma in cambio gli davo la mia velina e basta. Tutto qui». Ma soldi tanti? «Soldi? Erano più le volte che non ti davano un cazzo...». In sala stampa arriva Diego Novelli: «Benso ma che hai combinato? Come quella volta nel 1953 che cadde la mole Antonelliana e tu, corrispondente Ansa di Torino, non desti la notizia perché di interesse locale?». E Benso: «Sì, ma quella volta, sai che stavo facendo?». E accompagna con un fischio un inequivocabile gesto del braccio. Su e giù. Fabio Martini Domenico Salazar, direttore Sismi A destra, Vittorio Orefice

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