Fiori antichi di Ceronetti di Lorenzo MondoGuido Ceronetti
«Deliri disarmati» e tenerezza «Deliri disarmati» e tenerezza Fiori antichi di Ceronetti BEGGO Ceronetti, il libro intitolato D.D. Deliri disarmati, l'ultimo suo pubblicato da Einaudi, e mi chiedo che diavolo voglia suggerire con quel titolo l'imprevedibile Guido. «Deliri» può essere approssimativamente sostituito con follie, «disarmati» con innocui e magari innocenti. Vuol dire allora che il suo titolo equivale al palazzeschiano «lasciatemi divertire»? Può essere, per qualche parte degli scritti qui raccolti, che non bastano però ad attenuare o occultare la valenza estrema, il significato alternativo di furori impotenti. Mi sembra comunque che l'ambigua chiave di lettura fornita da Ceronetti oscilli, in una quantità di gradazioni, tra la parodia e la furia, tra il risentimento e il gioco. Proviamo a entrare nella selvetta di questi che chiamiamo impropriamente racconti e vedremo intanto che sono caratterizzati dalla brevità. E' un taglio che conviene al nostro autore e viene esaltato anche nei libri che sembrano affidarsi a un continuum narrativo, come ad esempio Un viaggio in Italia e Albergo Italia: dove conta l'immagine carpita avventurosamente, la situazione stravagante, il giudizio fulminante. E non è un caso se le cose che va dettando oggi per La Stampa si risolvano nella «Bandiera gialla» di Ugone di Certoit - anagramma romiteggiante di Ceronetti - fino a rapprendersi nella pratica citazionistica della rubrichina «Oggi». Tenendoci al vivo, prendiamo il racconto Dal lattaio dove il narratore, rinvigorito da sorsi di latte, mette piede in una Lombardia mai esistita in cui le giraffe e le zebre convivono con i caimani, le mondariso con i mammuth. Senza parere, quasi prestandosi (orrore) a un possibile spot televisivo sulle virtù del latte, Ceronetti realizza la profetica attesa, la suprema conciliazione di Isaia. Il sigillo vagamente religioso è apposto dalla guardiana di mammuth che, «col fazzolettone in testa e il libro di preghiere, mi saluta, proprio come Francois Millet la dipinse». Nella Pancera di Santa Teresa si fantastica su un bizzarro ex voto lasciato da un legionario - non importa sapere di che parte sia - dopo essere scampato alla guerra di Spagna. Teresa di Avila, con la quale Ceronetti intrattiene devota consuetudine, traspare in filigrana come una santa che non disdegna nei suoi miracoli una praticità soffusa di humour. La Spagna del '36 è uno dei chiodi fissi di Ceronetti, come lo sono - per restare in polemologia - le trincee sulla Marna della prima guerra mondiale (vorrebbe che a una pastorella di laggiù comparisse in una grotta Georges Clemenceau, il Tigre, che seppe rianimare i fantaccini francesi contro la fiumana tedesca). Ancora nella Spagna della guerra civile, dunque, una pioggia di petali cade sui teschi delle monache dissepolte, beffando il miliziano sacrilego che le custodisce. Lo scetticismo nei confronti della Storia e delle Rivoluzioni cede il passo alla critica dell'esistente nel Pianoforte flagellato. Lo strumento che urla il suo strazio in una stanza disabitata serve a creare una allarmante atmosfera gotica intorno alle ottusità di una famiglia applicata al pranzo con determinazione bovina. E quale accoramento nell'uomo che, contagiato dall'aridità universale, respinge due mendicanti dallo spioncino della sua porta, accorgendosi troppo tardi che si trattava di Edipo e di Antigone. Sono i momenti in cui il surreale si impadronisce, tra turbamento e letizia, della prosa di Ceronetti. E' lo scarto rappresentato dal miracolo, da una reviviscenza mitica, da un qualsiasi sortilegio nella normalità del quotidiano, espressa talora in dialoghi insensati. Quelle che ho ricordato sono situazioni in chiaro, non oscurate dalla ricerca del paradosso ad ogni costo, non gravate dal macabro e dallo sgradevole gettati sulla pagina come sfida. Penso a un incipit in elogio delle mosche: «Vi rimpiango, perché non ronzando più di mosche le case si riempiono soltanto delle nostre telefonate inutili». O al lamento sugli stracchini e sui timbri dimenticati, non immemore del più sbrigliato Ragazzoni. Sto optando, come appare evidente, per il Ceronetti meno criptico ed eccessivo, che detesta la melensaggine ma non ha paura della tenerezza. Tenerezza per gli uomini e per la stessa parola, precisa e creativa, non prigioniera del grido scomposto e dell'acrobazia verbale. Accade di ritrovarla intera nell'incontro con gli scrittori amati che dimostrano, attraverso un approccio inusuale, che l'uomo non è soltanto vergogna sulla faccia della Terra, non si riduce all'odioso essere «antropomorfo» respinto dal cielo. Si veda l'innominato Kavafìs che in una stanza di Alessandria, rigorosamente riservata al lume di candela, aduna i fantasmi di amori effimeri, non distinguibili dalla venustà di una Grecia che si disfa lungamente nella memoria. Oppure Alfred Doeblin che sulla mappa di Berlin Akxanderplatz, anziché le tracce d'una età di ferro e di fuoco, ripercorre gli itinerari dei tram, la modesta epica di oggetti quotidiani ormai entrati «nell'Invisibile». Il Ceronetti che qui si affaccia conferma di saper raccogliere, con modernità e inquietudine di modulazioni, il fiore antico del piccolo poema in prosa. Lorenzo Mondo «La creazione», un collage di Guido Ceronetti
Luoghi citati: Alessandria, Grecia, Italia, Lombardia, Spagna
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