Ramella, «selvaggio espressionista»
A Spoleto, quindici visionarie tele «metropolitane» A Spoleto, quindici visionarie tele «metropolitane» Che incubo, la città dipinta Ramella, «selvaggio espressionista» SPOLETO primi An- Ini 60 furono fonda I mentali per il dispiegarsi di energie nuove e assai diverse fra loro - logicamente, confrontandosi per la prima volta in tempo reale con il gran fermento e con le varie prospettive internazionali postinformali - nel contesto della giovane arte torinese, decisa e pronta a quei confronti senza complessi che la porteranno assai lontano e assai in alto anche sul piano internazionale. Il fervore era tale che una triade espressionista informale di trentenni o poco più, già ampiamente affermata ben al di là di Torino, quella di Ruggeri, Saroni e Soffiantino, po- teva in un certo senso tenere a battesimo nel giugno 1963 a «La Bussola» la pittura di due venticinquenni, Marco Gastini e Giorgio Ramella: già un'altra generazione, nel linguaggio. Ramella presentò allora una serie secca, vitrea, meccanica di Incidenti, cui seguirono subito dopo serie di Città, Vetri¬ ne. Oggi, dopo trent'anni e dopo ricche e alternative esperienze, è tornato con modi assai diversi ma altrettanto duri e perentori alla pittura «urbana»; all'incubo e ossessione, folgorante o sulfurea di colori puri, della città come carcere, murata, soffocata e violenta nella fissità della luce artificiale o nell'opacità minacciosa del black-out. Ne presenta una quindicina di esempi, di formato maggiore o minore, fino all'11 novembre, nelle belle sale medioevali recuperate alla base del Palazzo Municipale. Il modulo di immagine, nota ribattuta in una serie allucinata e allucinante di variazioni cromatiche in cui l'osservatore è imprigionato senza vie di fuga, è dato dall'estrema sintesi di un angolo disumano della stazione Coney Island della metropolitana di New York, uno di quelli che compaiono come nuda minaccia lungo il percorso dei Guerrieri della notte: spazio compresso, quasi cromaticamente spremuto entro le due dimensioni della tela; le coordinate spaziali sono minimalizzate, in verticale e diagonale di profondità, da un segno guizzante - quasi lampo, scarica elettrica - nero, giallo, rosso o incredibilmente verde smeraldo. Quelle notti nere e verdi Nero giallo rosso, quasi sempre in forma binata di fondo e di dominante in una struttura a striature verticali, sono infatti le tonalità di gran lunga prevalenti, in un tessuto di spazio-pittura che rimbalza d'opera in opera, violento, quasi implacabile e nello stesso tempo cromaticamente lussurioso: qualche minima pausa, rispetto alle luci lancinanti su quei piani striati e tesissimi, è solo offerta dalle Notti intessute di nero e verde smeraldo. Questi spazi di pura sostanza cromatica, pur nella loro memoria di un'esperienza rea¬ le del pittore, in forma di incubo e ossessione, non tollerano nessuna traccia, nessun segno, nemmeno un'ombra o graffito di presenza vitale (ma il pittore è già proseguito oltre Coney Island, ha già riaperto in questi giorni un dibattito con il magico e l'antropologico). E tuttavia, guardando ben a fondo, queste solitudini hanno azzerato l'umano, ma non rifiutano per nulla la storia; quanto meno, la storia dell'arte. Un filo, lunghissimo, sottilissimo ma tenace rilega questi ipogei di New York al Battistero fiorentino quale l'aveva tracciato sulla sua «tavoletta» il Brunelleschi, forma nello spazio nuda e assoluta; e il giallo citrino striato sulla base nera affiorante è pur quello di Van Gogh; e la gamma dura ed elementare della tavolozza di Ramella ha un tasso e un concentramento più denso e concreto di cattiveria anche rispetto a quella dei neoespressionisti «selvaggi» tedeschi. Marco Rosei Giorgio Ramella in una foto di Paolo Mussat Sartor: 15 sue tele in mostra a Spoleto
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