I furori di un genio ticinese

Pittore, scultore, intagliatore e stuccatore, continuò la lezione del Caravaggio Pittore, scultore, intagliatore e stuccatore, continuò la lezione del Caravaggio I furori di un genio ticinese Alla scoperta di Giovanni Serodine i| MENDRISIO incredibile come la storia dell'arte italiana si r li J sia seduta su stereotipi MA Idi comodo e su valori pubblicitari, se vogliamo già «giornalistici», duri da scalfire. Che Giovanni Serodine, per esempio, a differenza di compagni come il Reni, o Guercino, o i Carracci, dopo studi, mostre, sorprese e deliqui, non sia ancora entrato neppure come nome nell'abitudine acustica dei più, e nelle valutazioni di merito non sia pacificamente considerato uno dei grandissimi della nostra, e non soltanto nostra, pittura, è uno di quei misteri forse spiegabili ma certo non assolvibili. Dunque, Serodine: ci si butta a capofitto, appena si ascolta il suo nome, che andrebbe venerato. Anche e soprattutto se si tratta di un piccolo, nobile museo svizzero (ne avessimo noi, di analoghi) a Rancate, presso Chiasso: la fortunata Pinacoteca Zùst che contiene di Serodine quel capolavoro rannuvolato e furioso del San Pietro in carcere, incandescente di fede e di solitudine, «capsula di dinamite gettata in un fornello» (Longhi), con quel teschio-caciotta spodestato dai vermi e quel bruciare protervo dei sacri libri nel cassetto, lambiccati ed accartocciati, quali li poteva concepire soltanto il luterano-olandese Marinus. E' qui che due studiosi accaniti, il Papi e Roberto Contini, propongono sino a fine novembre un'ardita mostra di proposte ed ipotesi; e nel ponderato catalogo Fidia un figlio d'arte come il Contini, rifacendosi anche all'isolamento grandioso dell'artista ticinese, assicura credibilmente che «non c'è assimilazione ad altri artisti, contemporanei o della posterità, che tenga: né Fetti, né Hals, né Rubens. Serodine è e deve restare isolato nella propria grandezza perché sarà lui a dover essere utilizzato come termine di paragone e col tempo sarà lui a guadagnarsi nella considerazione comune un posto pari ai Fetti, Hals, Rubens». Volentieri sottoscriviamo, ricordando che uno dei primi (1950) auscultatori della genialità del Serodine, il Longhi naturalmente, osservava: «Quasi si pensa al Bove Squartato di Rembrandt o al moderno Soutine», sottolineando anche questa sgomentante intemporalità senza confronti. Eppure la piccola, meditata mostra di Rancate, che certo non può rivaleggiare con la più sontuosa retrospettiva del Serodine, curata sei anni fa da Rudy Chiappini a Locamo, e che schierava capolavori da rompere il fiato, tenta «paradossalmente» di approfondire quei possibili legami (addirittura con Borromini, che era anche lui ticinese) e tenta meglio capire questa meteora assoluta dell'artista che visse soltanto trent'anni, ma di cui i due curatori sono convinti si debba ampliare comunque il catalogo. Magari anticipando (con documenti asconesi e non romani) la data di nascita, dal più problematico 1600 (che renderebbe ancor più complessa la potente suggestione caravaggesca) al 1594 e ipotizzando, oltre al documentato soggiorno spoletino come freschista, anche una rilevante sosta a Matelica, nelle Marche, non solo per licenziare la neo-attribuita pala del Miracolo della Fornace dì San Francesco, ma anche - a quanto si ipotizza per dar fiato al proprio inverificato talento di stuccatore ed intagliatore. Dando pace così ai quesiti di un Longhi, che si interrogava sulla sua natura di «scultor e pictor» e risposta alle tesi secentesche di un Baglioni, secondo cui Serodine «intagliò anche in marmo, con grandissima diligenza». Affare fatto? Difficile, di fronte alla pala del Miracolo, con quei manieristici colorini trasparenti e quei cieli aperti, che non a caso furono in altri tempi attribuiti al barroccesco Andrea Lilli, pensare subito al Serodine, soprattutto avendo a fianco quello scuro confabulare di membra cenciose ed accanite di rughe delle tele di Ascona, o quel prodigio di carnalità psicologica dell'Elemosina di San Lorenzo con il bianco stagliarsi ascetico del Santo in mezzo a quella zuffa di muscoli, bastoni da pellegrino, ciaffi e scarpe stanche, occhi rosi di cupidigia e sfatte mani che vogliono farsi strada verso quella rilucente natura morta della contesa oreficeria. Che dire poi di quel ribaldo ed un poco indolente, berni- niano garzone di bottega, che Testori voleva un autoritratto giovanile, e quel tabaccoso Muratore con cazzuola, ipotizzato fratello del pittore, che effettivamente nell'impianto del volto ricorda il portentoso ritratto manzoniano del Padre, degno almeno di un El Greco, con quello sfondo burrascoso di casa plebea? Si studi per l'intanto il catalogo: così si intuiranno meglio i rapporti col primo Vouet «italiano» o con i caravaggeschi presenti in mostra, il Borgian- ni, Guerrieri, Antiveduto Grammatica (pur catafratto nella sua vetrosa impiallacciatura, tanto quanto Serodine è pastoso, «crepitante e rabbuffato») e si potrà verificare anche l'ipotesi di un giovanile viaggio meridionale del ticinese, tra i camaldolesi di Napoli: non foss'altro che per scoprire il Caravaggio delle opere della Misericordia o dellVldoraziorce di Messina e rimanerne «bruciato» a vita. Marco Vallerà Visse solo trent'anni, tra Cinque e Seicento: una rassegna a Rancate ripercorre l'opera di un maestro ingiustamente sottovalutato Mi Sopra: «San Pietro in carcere» di Giovanni Serodine a sinistra particolare di un altro dipinto, a Rancate fino al 30 novembre

Luoghi citati: Marche, Matelica, Messina, Napoli