MONTALE «COSI' HO SCOPERTO SVEVO» di Giovanni Tesio

l In inedito l In inedito MONI ALE: «COSI1 HO SCOPERTO SVEVO» AGIONI biografiche e insieme intellettuali, un incontro di periferie, un percorso atipico, una comune origine commerciale, che sa di resine e di scagni, una propensione a lasciare che la vita scivoli nell'opera. A conti fatti la fortuna critica di Svevo comincia con Montale, come non manca puntualmente di osservare Giovanna Ioli nella sua Introduzione ai Romanzi dello scrittore triestino, che escono a nove anni dalla caduta dei diritti d'autore nei Classici Utet, la collana già diretta da Ferdinando Neri e Mario Fubini, e ora da Bàrberi Squarotti (pp. 998, L. 100.000). Nei passaggi di questo sodalizio tra scrittori d'eccezione, la lettura della Ioli (oltre all'introduzione, le note e gli apparati bibliografici) non trascura i minuti dati documentari, scovando tra l'altro una lettera inedita a Valéry Larbaud, in cui Montale si mostra sottilmente orgoglioso di aver preceduto con il suo Omaggio, apparso sulla rivista milanese «L'Esame» nel novembre del 1925, il famoso numero speciale del «Navire d'Argent», che nel febbraio del '26 sancì la statura europea di Svevo. «Caro Maestro - scriveva Montale - il mio amico Ettore Schmitz mi ha dato il vostro indirizzo di Lisbona e mi ha incoraggiato a scriverle. Io le scrivo, e forse non so perché. Le ho spedito, l'altro ieri, un modestissimo studio su di lei, che ho pubblicato sul Baretti di Torino nell'aprile 1925... A questo saggio ho aggiunto un articolo che ho dedicato a Svevo, pubblicato sul Quindicinale di Milano nel gennaio 1926. Avevo già parlato di Svevo sull'Esame di Milano del novembre 1925 (dieci pagine stampate fitte, nelle quali era stata esaminata tutta l'opera di Svevo). Non posso, al momento, inviarle tale rivista che ha preceduto di tre mesi il Navire d'Argent, il numero che, del resto, la stampa italiana non ha degnato di rilevare, ma che non può diminuire il merito degli amici francesi di Svevo». L'analisi della Ioli tende soprattutto a sottolineare la grana autobiografica della scrittura, il parlato che «dilaga in ogni frase, in ogni anfratto psicologico dei personaggi, delle voci, dell'ambiente». E' la letteratura che s'impasta con la vita senza mai trasformarsi in identità. L'io che scrive mantiene le sue distanze dall'io che vive così come un'immagine riflessa allo specchio rimane diversa o distante dall'originale. Ma la complicità resta: un autobiografismo sempre speculare, giocato sul filo mobile dell'ironia, unica salvaguardia al male inguaribile della vita come tale. Non salvezza né guarigione possibile, ma consapevolezza della malattia, che da Una vita si dipana fino al culmine del romanzo maggiore, propagandosi in ogni direzione: i racconti, il teatro, l'Epistolario. Battaglie programmate per essere perdute, il gioco paradossale del caso che si converte in destino, la sola e vera inettitudine dei portatori di salute, la lezione del sottosuolo virata in domestica levità. Lungo tutto il percorso che va dalle circostanze anagrafiche di un nome impiegatizio (Ettore Schmitz) a quelle pseudonime di un travestimento insieme aulico e stridulo (Italo Svevo), si disegna l'ampio spettro dell'unico libro che lo scrittore di Trieste abbia sempre scritto. Il moderno gioco del rovescio che diventa verità. Per questo l'ironico giocatore mitteleuropeo è diventato un classico. Giovanni Tesio

Luoghi citati: Lisbona, Milano, Torino, Trieste, Valéry Larbaud