«lo Marzotto sto con Abete però c'è troppa ideologia»
ANATOMIA DI UNA CRISI ANATOMIA DI UNA CRISI «lo, Marzotto, sto con Abete però c'è troppa ideologia» «Le privatizzazioni? Il problema non è il "nocciolo duro" ma chi non vuole mollare la presa» La legge elettorale? Divide il Paese tra mafia e Lega» CVALDAGNO OM'E' fatto un privatizzatore, specie così rara in Italia che andrebbe rigorosamente protetta dal Wwf? Quello che abbiamo davanti in carne e ossa si chiama Pietro Marzotto, è un signore schivo e pacato di quinta generazione industriale, che dietro una piccola scrivania ottocentesca nella città-fabbrica di Valdagno, immersa nelle operose valli vicentine ancora percorse dallo spirito del Veneto austriaco, dirige un'azienda che qualche anno fa sembrava spacciata e oggi è tra i primi gruppi tessili del mondo. E' lui il prototipo del privatizzatore ante litteram, perché sei anni fa - correva il 1987 - rilevò dall'Eni un'accozzaglia di aziende tessili in buona parte decotte, che andava allora sotto il nome di Lanerossi. Come successe? Come fu possibile in un'epoca in cui vigeva ancora la mistica del pubblico e imperava, non scalfita, una nomenclatura potentissima di politici e boiardi dell'impresa di Stato? «Guardi che la storia è un po' lunga», ci avverte Marzotto. «Fu nel 1975 che un giorno mi invitarono a colazione Antonio Bisaglia, ministro delle Partecipazioni Statali, e Pietro Sette, presidente dell'Eni. "Guardi - mi dissero -, noi abbiamo 'sto problema della Lanerossi che perde un sacco di soldi e non sappiamo come risolverlo". Io risposi che la prima cosa che dovevano fare era distinguere tra le aziende del gruppo quelle che, se ben gestite con criteri privatistici, avevano possibilità di sopravvivere e quelle che invece erano segnate, perché potevano produrre non valore aggiunto, ma soltanto valore dedotto, cioè perdite. Naturalmente, tutto finì lì, non se ne fece nulla. Finché nel 1983, con De Michelis ministro delle Partecipazioni Statali e soprattutto Reviglio presidente dell'Eni, un dirigente del gruppo, Masseroli, fece finalmente il censimento delle imprese risanabili e di quelle da buttare. Passarono ancora tre anni prima che qualcosa si muovesse. Poi, finalmente, la cosa si sbloccò, ma c'erano dei problemi tecnici che i politici faticavano a capire, soprattutto quello delle perdite pregresse utilizzabili al 36 per cento fiscalmente. La faccio breve: vendendo la Spa nel suo insieme alcuni acquirenti sarebbero stati favoriti e lo Stato ci avrebbe rimesso un sacco di soldi. Andai a illustrare il problema al ministro Darida, citato come Durida nei taccuini di Gelli, ma non gliene importava niente. Allora ricorsi a Goria, che era presidente del Consiglio, il quale capì la distorsione fiscale che si creava e accettò di correggerla. Ci fu un'asta competitiva, l'operazione fu gestita dalla Paribas in modo irreprensibile e cristallino. Quando qualcuno andò da Craxi a dirgli: "Guarda che la Marzotto si prende la Lanerossi", lui rispose: "La Lanerossi non interessa via del Corso!", frase perfetta per una vignetta di Forattini. Vincemmo l'asta a 167 miliardi. Oggi nessuno potrebbe negare che l'esperienza è stata positiva per tutti». Eppure è scoppiata la guerra di religione tra sostenitori del «nocciolo duro» e della public company. «Si fa troppa ideologia, con alcune posizioni eccessive anche da parte industriale. Il presidente del Consiglio ha preso impegni precisi per Credit, Comit, Imi, Pignone. Io ci credo, anche se prevedo fortissime resistenze da parte del Parlamento e di quell'enorme nomenclatura dell'impresa pubblica che le privatizzazioni può subirle, ma non certo gradirle. Prodi è convinto e sincero, ma i suoi uomini nelle Finanziarie e nelle aziende?». Ma sul metodo? Ha ragione Prodi o hanno ragione Savona e La Malfa? «Guardi, premesso che Prodi e Savona non sono così inconciliabili come sembra, l'importante è evitare di creare manager controllori di loro stessi, come spesso è capitato, ad esempio nelle public company americane, dove aziende che perdevano centinaia di milioni di dollari elargivano ai loro dirigenti stipendi di 50 a 100 milioni di dollari l'anno e paracadute d'oro in caso di dimissioni. Certo, se io con i miei risparmi dovessi sottoscrivere una privatizzazione lo farei soltanto se sapessi ben chiaramente chi è l'azionista di riferimento». Si dice che la battaglia per il «nocciolo duro» nelle banche nasconda la paura di pochi grandi gruppi privati di perdere le loro posizioni di privilegio. «Guardi che la soglia del 3 per cento alle singole partecipazioni con- tornato Papandreu e ha bloccato le privatizzazioni. Pensa che qualche fantasma alla Papandreu aleggi anche qui? «Qualche Papandreu sarà di certo in agguato, ma gli elettori sono più attenti e la Lega, che pare debba trionfare alle prossime elezioni, è per le privatizzazioni. Certo, la nuova legge elettorale è disastrosa: consegna il Nord alla Lega e il Sud a mafia e camorra, che si mimetizzeranno sotto varie bandiere. La malavita rischia di essere il partito più forte nel Mezzogiorno. Sinceramente non si capisce perché de e pds abbiano regalato il Nord alla Lega e il Sud alla malavita». Che avrebbero dovuto fare? «Ci voleva un sistema a doppio turno alla francese con sbarramento, che avrebbe consentito di fare prima delle elezioni coalizioni con idee chiare. Invece guardi cosa capita. Che senso hanno le discussioni tra Martinazzoli, Rosy Bindi, Segni, Amato? Tutti vogliono appropriarsi di questo mitico centro, senza rendersi conto che non ha più senso parlare di destra, sinistra e centro. Ha senso parlare di cose da fare. Assistiamo invece a un dibattito totalmente privo di progettualità. Cos'è mai un progressista e cosa un conservatore, oggi?» Lei lo sa? «Credo non ci sia peggior conservatore di chi vuol mantenere lo Stato spendaccione. Non so se sia giusto cario, ma questa Rosy Bindi, che dovrebbe rappresentare il nuovo nella de, mi appare come una bieca conservatrice, tutta ammantata, nella sua pochezza programmatica, di solidarismo e conservatorismo. Martinazzoli, poi, in che cosa rappresenta il Nuovo? Forse nel seguire le raccomandazioni della Chiesa, che porta una visione di eguaglianza senza sviluppo, condannandoci a un'eguaglianza verso il basso, in discesa?». E dov'è il Nuovo? Forse nel partito-non partito di Berlusconi? «Ma figuriamoci, quella è una cosa confusa, che non capisco. E quando non capisco preferisco non commentare». Non sarà diventato anche lei leghista ? «Guardi che, a parte alcuni toni e alcuni metodi, io non ce l'ho con la Lega. Mi limito a osservare che dopo le prossime elezioni ci sarà una situazione d'ingovernabilità ancora peggiore. C'è da sperare perciò in un governo di salute pubblica che non rispecchi la composizione partitica del Parlamento, ma sia guidato da una personalità autorevole e composto da persone di valore». Come il governo Ciampi, che ha vita così stentata? «Comunque il governo Ciampi è stato una svolta, ha consolidato l'avvio al risanamento dato dal governo Amato con una manovra molto importante. Dopo ci vorrà un altro governo di amministrazione, se vogliamo che il cambiamento vada avanti concretamente, nei fatti». Ma non vede crescere, in coincidenza con l'attività di questo governo quasi-tecnico, un'ostilità diffusa nei confronti dei grandi gruppi industriali privati? «Pensi che noi che siamo dei poveri tessili, siamo l'undicesimo gruppo italiano. Soltanto quattro gruppi, compresi due pubblici, fatturano più di 10 mila miliardi. Questo le sembra forse un apparato industriale di dimensioni europee? Non vedo pericolosi disegni monopolistici, quelli contro cui alcuni politici tanto spesso strillano. Se Generali e Mediobanca, per esempio, avessero il disegno di acquistare le azioni di riferimento di una banca, non mi sembrerebbe uno scandalo, ma una cosa naturale, che si fa in tutto il mondo. Il vero disastro sarebbe se si dicesse: nessuno può avere più di mille azioni di quell'impresa. Così si creerebbe una specie nuova di boiardi, peggio di quella vecchia, che almeno aveva il controllo del ministero delle Partecipazioni Statali». Dottor Marzotto, perché in una fase di passaggio così difficile c'è divisione anche tra gli industriali privati? «Guardi, in Confindustria abbiamo un presidente bravissimo come Abete, ma non nego che ci sia qualche situazione conflittuale. E sa perché? Perché qualcuno non abbandona la tentazione di seguire gli interessi di cui è portatore, piuttosto che quelli generali. Ma è meglio che in passato: di giorno in giorno prendono più forza le idee sane. Per questo sono ottimista». Nella foto grande l'industriale Pietro Marzotto e (foto piccola, sotto) il presidente dell'In' Romano Prodi OGGI ASSEMBLEA
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