Festa grande Scipione sul set

Frutterò, il cinema nel sangue Frutterò, il cinema nel sangue Festa grande Scipione sul set Ottantanni fa a Torino si cominciava a girare Cabiria, il primo film colossal. Per l'occasione l'editore Aleph sta per mandare in libreria Le fabbriche della fantasticheria. Atti di nascita del cinema a Torino. Il volume, con scritti di Valerio Castronovo, Paolo Bertetto, Giuseppe Fulcheri, Franco Prono, Marcella Sarale, Liborio Termine, contiene un ricordo dello scrittore Carlo Frutterò. Ne diamo un brano in anteprima. EBBI i miei primi contatti con il cinema attraverso la scuola che era quella fascista. E la scuola fasci Ista, per l'esperienza che ne faceva un ragazzino, era molto più Fellini e molto meno Stalin. Totalitarismo imperfetto, lo chiamano oggi gli studiosi. Si viveva ogni cosa in modo molto blando, senza che nulla venisse preso sul serio. Io credo che Fellini abbia dato, del fascismo vissuto da un ragazzino, una immagine esattissima. Ricordo il mio barbiere, Moccia, da cui andavo in via Villa della Regina. Era il tipico barbiere napoletano, immigrato già da una generazione a Torino; era un uomo simpatico e gioviale, che il sabato si metteva in orbace, indossava stivali e fez e diventava capomanipolo, capo centuria, insomma un personaggio della Roma antica. Lui stesso non ci credeva, immagino, ma doveva largii piacere. Parte della nostra educazione fascista consisteva nell'andare al cinema. Ci venivano concessi solo film patriottici: Garibaldi, il Risorgimento, la prima guerra mondiale, gli eroi bersaglieri... Ma, indipendentemente dal genere, quelle immagini ci facevano comunque entrare in un mondo assolutamente meraviglioso. Il cinema dove andava la nostra scuola era il primo raggiungibile: quello di piazza Vittorio, che all'epoca si chiamava Impero, poi Vittorio Veneto, e ora Empire. Non saprei dire se tra i film che allora vedevo ce ne fosse qualcuno di valore. Ma per noi che frequentavamo le elementari, anche Scipione l'Africano era una festa. Fu alle elementari, comunque, che ebbi il contatto più, diciamo, viscerale con il cinema. I miei genitori mi portavano al cinema con lunghi intervalli, e ogni volta era un evento memorabile. A casa mia era inutile pregare o piangere per ottenere la «grazia" di un film: si andava quando decideva mio padre, perché mio padre era tipo che amava decidere lui. Andavamo a vedere Capita?! Mutici, Lisola del tesoro. Capuani coraggiosi. Era una gioia. E gioie di quella intensità non si hanno mai più. Quell'emozione è il massimo assoluto del cinema, il suo scopo stesso. Già il locale era un luogo fiabesco per un bambino. Ho ricordi di pioggia, di ombrelli aperti, di sale sontuosissime, immense; ricordi del cinema Corso che a un bambino di nove anni sembrava quello che voleva sembrare: un tempio assiro-babilonese. Si cresce e quelle sensazioni, quello spaesamento magico, non si possono più provare, neppure dinanzi a un vero tempio assiro-babilonese o alle Piramidi d'Egitto. In questo vedo la differenza con la televisione. La tv è facile, l'hai subito in casa e cambi scenario senza pensarci due volte: la comandi. Il cinema no e il cinema era, in un certo senso, l'introduzione al teatro. II i'atto incomprensibile è che l'andare al cinema, per la sua rarità, ne faceva una specie di cerimonia, affine alla Messa di mezzanotte, alla processione della Consolata o alle parate militari del 24 maggio (...). Appena un po' più grandi, incontrammo, al cinema, i Fred Astaire, le Ginger Rogers, e fu una nuova, incredibile, rivelazione. Ancora oggi mi stupisco che dei film fatti di sola grazia, leggeri, spiritosi, eleganti, potessero entusiasmare immense platee popolari, tanto quanto i western, i dram¬ moni, i film di gangster. In quel tempo, al Parco Michclotti, c'era un cinema all'aperto. Molti di quei film li ho visti in quel cinema con mio padre. Il cinema all'aperto, col gelato: pura estasi. Anni dopo, sarà stato il 1947, un mio amico mi disse: «Vieni al Parco Michelotti. Questa sera c'è, figurati, Gino Pranzi, ancora vivo...». E andai a vedere quel vecchio cantante che, nel primo dopoguerra, aveva lanciato Abat-jour, Profumi e balocchi, e aveva creato quelle famose romanze lacrimevoli che, figlie della retorica cominciata con l'opera lirica ottocentesca, hanno chiuso per sempre, intorno al '39-40, la possibilità del melodramma assurdo e inverosimile di cui il cinema aveva prolungato degnamente la vita dopo Puccini. I Marocco, le Ungherie, le Marlene Dietrich che camminano scalze sulla sabbia... Mirabili enormità di segno «alto» che si accettavano per una convenzione che è ancora valida solo nell'opera. Adesso i film sono molto più belli, recitati meglio, hanno dialoghi realistici, concreti; esterni meravigliosi. E non hanno più retorica. Sai di essere dinanzi a un film e non all'opera. Adesso è tutto vero, e godi di De Niro, la cui recitazione è di gran lunga migliore di quella di Humphrey Bogart - anche se i De Niro non posseggono quell'aura indefinibile che costituiva il fascino di un attore come Bogart e che, a ben vedere, è riconducibile a quella specie di romanticismo operistico, oggi scomparso. Non che manchino, oggi, attori capaci d'essere grandi divi; ma il fatto è che non possono più diventarlo, come non può più esserci Conrad, perché nelle isole di Conrad oggi ci sono i turisti, gli alberghi Sheraton (...). E poi c'è stato il passaggio alla televisione, che personalmente benedico perché mai abbiamo avuto la possibilità di vedere tanti film come da quando c'è nelle nostre case questo apparecchio. E' una buona cosa. Anche se ha distrutto il cinema come luogo di festoso convegno. Ma questo, forse, è solo questione di pigrizia senile. Vedo infatti che mia figlia e i suoi amici vanno molto frequentemente al cinema e, proprio come facevamo noi, discutono, tranciano giudizi infiammati, seguono via via i nuovi registi, i nuovi attori... Spero che questa abitudine si diffonda di nuovo, anche come reazione alla noia dello stare sempre in casa. E non mi spiacerebbe se fosse pure un modo perché Torino possa recuperare, per il cinema, il gusto delle sue avventurose origini. lo mi spiego e non mi spiego come mai i torinesi, proprio i torinesi, abbiano potuto investire, all'inizio del secolo e quando la cosa costituiva una scommessa, nell'industria del cinema. Torino è, come si sa, una città regolare, ordinata, sobria; ma ha sempre avuto un suo ramo bizzarro. E' una terra che pur così severa, militare, ingrugnata, ha prodotto, per contrasto, un uomo comeVittorio Alfieri: un anarchico, uno sperimentalista frenetico, tutto sopra le righe, grandissimo scrittore, grandissimo autobiografo. Basterebbe leggere la vita di Alfieri per avere un'idea del tipo di alchimia che c'è in un torinese (certo, lui è astigiano, ma faceva parte dell'aristocrazia torinese). Un misto di anticonformismo, autodisciplina, stravaganza, spirito di avventura. Carlo Frutterò

Luoghi citati: Egitto, Marocco, Torino, Vittorio Veneto