Tra anatemi e sfiducia quarant'anni fa vedeva la luce la televisione italiana

Tra anatemi e sfiducia, quarant'anni fa vedeva la luce la televisione italiana Tra anatemi e sfiducia, quarant'anni fa vedeva la luce la televisione italiana /S|! PERAMMO invano che L' in Italia la televisione m non si avverasse mai», dil 1 ceva un titolo a sei colonia ne apparso sulla Stampa il 18 ottobre 1953. Non era l'opinione del giornale. Era l'opinione di Paolo Monelli, che combatteva l'estrema battaglia di retroguardia contro il più pericoloso Annibale alle porte: «Subdolo strumento di dittatura nel campo dello spirito e della coscienza, tanto più inavvertita quanto più le immagini e i suoni la fanno seducente». Ma la televisione, in quell'ottobre di quarant'anni fa, si stava «avverando». Anzi, si era già bell'e avverata, anche se il servizio ufficiale sarebbe partito soltanto due mesi dopo, il 3 gennaio 1954. Quello strumento subdolo che tanto preoccupava il laudator temporis acti - e non soltanto lui - era nato proprio nella città dove Monelli pubblicava i suoi anatemi; all'ombra, non solo metaforica, della Mole. Era nato fra via Verdi e via Montebello, sotto la cupola dell'Antonelli, con tanto entusiasmo nei radi pionieri e tanto scetticismo da paite di tutti gli altri, compresi molti dirigenti della Rai. Potrà sembrare strano, a chi guardi oggi i programmi con i quali la tv celebra il proprio quarantennale, ma al nuovo mezzo, allora, ci credevano davvero in pochi. Non ci credevano nemmeno i produttori di apparecchi. «Perché l'industria possa reggersi - dissero alla fiera del settore, che si teneva a Milano nell'autunno del '53 - ci vuole un mercato di almeno duecentomila acquirenti». Ma dove potevano mai pensare di trovarli, in quell'Italia che si stava ancora leccando le ferite della guerra, dove la vetta delle aspirazioni rimaneva la Vespa e nemmeno la radio era ancora arrivata a tutto il territorio. Alla fine del gennaio '54 gli abbonati alla tv erano 23.210: meno di uno ogni duemila abitanti. Ci credeva Sergio Pugliese, di Ivrea, il fondatore: un personaggio che veniva dal teatro di prosa - era stato un commediografo molto rappresentato negli Anni Trenta - e aveva fatto una buona carriera in radio. Un giorno del 1949 l'onnipotente Salvino Sernesi, allora direttore generale della Rai, gli chiese di inventare la televisione italiana. «Mi diede un foglio di carta e una matita», ci confessò quasi dieci anni dopo, quando la tv stava per conquistare il milionesimo abbonato (fine 1958). E lo mandò a Torino. A Torino non c'era niente, come in tutta Italia. Pugliese, con quel foglio e quella matita, si installò in via Arsenale e cominciò a mettere insieme la squadra, per i pi-imi esperimenti, da fare in via Verdi, nella sede della radio. Il primo annuncio in video, 1* 11 settembre di quel '49, lo diede Alda Grimaldi, allora giovane cineasta, che era uscita dal Centro sperimentale di cinematografia, era stata aiuto di Visconti e di Renoir e avrebbe poi passato la vita a fare regie negli studi torinesi. «Eravamo in quattro gatti - ci racconta -, Pugliese mi ha portato in studio e mi ha detto: "Queste sono le telecamere, adesso provate". Riprendevamo incontri di catch, spettacoli con un'orchestrina; trasmettevamo solo in Torino». Di quei quattro gatti, i più erano tecnici: l'ingegner Bertolotti, l'ingegner Magelli, e un ottimo operatore, Mario Bollito, uno fra i pochissimi in Italia a vantare un'esperienza televisiva. «Avevo una ditta artigianale, costruivamo ponti radio, fabbricavamo i primi televisori», ci dice. Per quanto possa sembrare inverosimile, c'erano clienti che comperavano l'apparecchio già allora, senza poterlo usare. «Un negoziante di carbone si era fatto fare un mobile largo due metri, alto uno e settanta, aspettando la tv. Quando in Rai abbiamo cominciato a trasmettere film lui aveva la folla». Mario Bollito, oggi settantatreenne, andato in pensione come direttore degli studi torinesi, è stato pioniere non solo nella sua città. Ha costruito il centro tv alla Fiera di Milano, inaugurato nell'aprile '52, e ha dato le prime dimostrazioni televisive al Festival di Venezia, nello stesso anno, trasmettendo sui teleschermi al teatro Verdi i film che si proiettavano al Lido. «Facevamo tutto - dice - dal cameraman al dirigente al manovale». C'erano anche due giornalisti, in quell'embrione di tv, che nessuno si sognava di lottizzare. Il primo assoluto è stato Furio Caccia, torinese, classe 1921, ex radiocronista, e poi una vita al Tigì. «Leggevo il telegiornale in studio, per i televisori messi nelle vetrine di via Roma». Alle riprese esterne c'era Carlo Bacarelli, altri non ce n'erano. «Nel '49 abbiamo fatto esperimenti per un mese. Ci guardavano come venissimo giù da Marte: ma cosa fanno quelli? Un giorno ci tingevano la faccia di nero, un altro di rosso, per vedere quale delle due tinte veniva meglio». Molto presto si esperimentò anche a Milano, al teatro del Parco. E lì arrivò il grande padrino della futura tv, un abruzzese ex istruttore di cavalleria che aveva alle sue spalle tanto cinema e tanta radio, Anton Giulio Majano. Nel 1949 Pugliese lo aveva chiamato perché si doveva scegliere il sistema da adottare e bisognava trattare con fran¬ cesi, inglesi e americani. A 82 anni, Majano ricorda oggi quei primi giorni milanesi, con i tecnici stranieri pieni di diffidenza nei suoi riguardi. Non sapevano che sarebbe stato lui a creare la prima fortuna della televisione in Italia, con la serie dei suoi romanzi sceneggiati. «Ma poi ci siamo intesi perfettamente». E Majano, in quel teatro, faceva dei veri spettacoli, «per un pubblico pagante», sottolinea. Erano i primi spettatori a pagare, per quella tv senza abbonamenti. «Il teatro era organizzato bene per le riprese. Facevamo sport, sfilate di moda, spettacoli di varietà con Tognazzi ed Elena Giusti. Chiamai Corrado Mantoni, appena entrato in Rai, lo chiamai proprio io. Misi in scena anche un'opera, La serva padrona di Pergolesi, senza costumi. Vole- vamo la dimostrazione delle possibilità televisive. E il pubblico era affascinato». Le trasmissioni vere, per i primi veri spettatori, cominciarono tre anni dopo, ancora sotto la Mole. Questa volta i quattro gatti delle origini potevano contare su uno studio, nell'edificio dove era stato il teatro di Torino, svuotato dai bombardamenti. Di lì, nel febbraio del 1952, andò in onda il primo allestimento della televisione italiana, l'atto unico Dopo cena, dell'inglese Stringere, con Ubaldo Lay e Marisa Mantovani, regia di Mario Landi. L'annunciatrice era una giovane torinese, Olga Zonca; l'aiuto regista ancora Alda Grimaldi, prima in Italia ad avere un contratto con la tv. «Me lo fece Sergio Pugliese, 1' 11 febbraio 1952, sciogliendomi da un impegno che avevo già preso con Zampa per Processo alla città». . In quello studio si faceva televisione per pochissimi, con pochissimo, in tempi stretti, in spazi quasi inesistenti. La Grimaldi ricorda uno spettacolo di varietà che prevedeva l'arrivo di una banda. «Ma la banda in studio proprio non ci stava. Abbiamo dovuto far attendere i suonatori, d'inverno, sulla strada; e solo quando è arrivato il loro turno gli abbiamo aperto la porta». Lavoravano anche di notte a montare le scene, si ingegnavano tutti. «Nel '52 a una mia trasmissione è venuto Alberto Sordi. Per dargli un fondale gli ho portato da casa una coperta damascata a righe. E lì davanti lui ha cantato Nona nonetta. Non era ancora il Sordi di oggi». In compenso si cominciavano a fare cose più importanti: veniva Franco Antonicelli a parlare di libri, Susanna Egri con i balletti, Fred Buscaglione. E Franco Enriquez metteva su un testo di Maugham, Pioggia, con Albertazzi e Arnoldo Foà («I personaggi erano due omosessuali, ma bisognava cercare di non farlo capire». E non lo si capì). Si lavorava sempre in diretta, il primo strumento della regista era il gesso, per segnare le posizioni delle telecamere, che lei riportava poi sul copione. La commedia del venerdì sera veniva replicata, dal vivo, la domenica pomeriggio. Ma una domenica la replica non potè avvenire perché la donna delle pulizie aveva cancellato tutti i segni che Mario Landi aveva tracciato per terra. Eppure quelle dirette avevano un pregio, ricorda Enza Sampò, che trovò ancora il sistema dei gessetti quando esordì nello stesso studio pochi anni dopo. «Erano curatissime, si cercava di raggiungere la perfezione. Adesso questa cura non importa più, quando l'immagine è sporca sembra la più pulita». Si lavorava in altre condizioni a Milano, dove Pugliese si spostò nell'aprile del '52, per dare vita alla Direzione esercizio televisivo. Lì c'erano gli studi, si cominciava a formare il gruppo dirigente. E nasceva un Telegiornale, curato da Vittorio Veltroni, con cinque giornalisti. Alvise Zorzi, che era responsabile dei servizi culturali, ricorda le delicate missioni che gli avevano affidato per le trasmissioni religiose. «Andai dal cardinale Schuster, mi manifestò tutte le sue preoccupazioni per quelle diavolerie che stavano nascendo». Andò dal Papa, si trovò meglio. «A Pio XII la tv piaceva, si era appassionato all'idea. La prima volta che andai da lui a parlargliene mi sorprese molto. Quell'uomo ieratico, che si esprimeva in tante lingue, a partire dal latino, mi rispose in romanesco: "Ma che voj, fijo, ce so' tanti problemi, prima bisogna vede de risolverli». Un problema Zorzi se lo trovò assai presto, quando chiamò Malaparte per un dibattito in diretta, nel giugno del '53. «Perché non si è mai sposato?» gli chiese il conduttore, Giuseppe Bozzini. «Perché in questo Paese di preti non c'è il divorzio», rispose l'autore de La Pelle, suscitando un pandemonio in quella tv con pochi spettatori, ma con tanti guardiani. «Nessuno allora sapeva quale sarebbe stato l'impatto della televisione sul pubblico dice Zorzi -. Pugliese la vedeva come un surrogato del teatro, un fatto di puro spettacolo. Pensava a un ascolto familiare. E si trovò di fronte a un ascolto collettivo, che cambiava tutto. Non si era reso conto dell'importanza del fenomeno». In quel clima si arrivò, il 3 gennaio 1954, alla inaugurazione del «servizio nazionale» (in realtà ristretto a poche regioni). I giornali avevano le prime pagine dedicate alla crisi del governo Pella, che tentava un faticoso rimpasto, destinato a fallire poche settimane dopo. L'annuncio dell'evento televisivo era relegato nell'interno, senza troppo rilievo. Quel giorno, dopo le celebrazioni del mattino, andarono in onda il film di Soldati su Travet, un atto unico di Goldoni con Isa Barzizza, La domenica sportiva. Alle sette di sera, un dibattito con Montanelli, Granzotto e Barzini sui pericoli e i vantaggi della tv. C'era anche un intervistatore, sconosciuto a tutti. Luigi Barzini, nel riferire dell'incontro il martedì mattina sulla Stampa, con generosità ne riportò il nome, ritenendo forse di aiutare un giovane; ma neppure lui sapeva scriverlo giusto: «Mike Buongiorno». Giorgio Calcagno Tra i pionieri: Pugliese, Majano Enza Sampò, Alda Grimaldi, e un tal «Buongiorno» WmMM jÉji j||§ Sordi nel '53 dagli studidi Torino mentre cantava «Nona nonetta» Sopra: Ugo Tognazzi e Enza Sampò II Mike «Buongiorno» citato da Barzini e Isa Barzizza Sergio Pugliese: a lui furono affidati i destini televisivi italiani