lo e Calvino nel giardino del barone rampante di Mirella Appiotti

lo e Calvino Libereso Guglielmi, oggi botanico di fama mondiale, imparò il mestiere con il padre dello scrittore. In un libro racconta quegli anni lo e Calvino nel giardino del barone rampante ■m ITALO non veniva con I noi... qualche volta, e poi | più...». Invece con suo paI dre, il professor Mario —Mi Calvino, «salivamo verso San Giovanni... Quando eravamo su, lui mi diceva: "Oggi raccogliamo i finocchi selvatici". Nel discendere raccoglieva ancora roba da mangiare, poi arrivava a casa e tutte le mattine - era un cinema - diceva alla moglie: "Eva, ho portato i finocchi, oggi voglio i finocchi". Dopo cinque minuti, sentivo lei che mi chiamava: "Liberesooooo!". "Cosa?". "Porta i finocchi ai conigli". Allora arrivava lui "Porco qui..."; e lei "Sacra polenta, Mario! Ma sempre finocchi? Ci sono stato dieci anni: non ho mai potuto mangiare un finocchio...». La scena si svolge negli Anni 40 alla Meridiana, la bella villa di Sanremo in cui i proprietari, Mario e Eva Calvino, hanno creato quel giardino-stazione sperimentale di floricoltura e frutticoltura che in breve diventa di importanza più che europea: la dirige il professore, studioso di fama mondiale, al termine di una lunga esperienza in Messico e a Cuba; la moglie collabora attivamente («era maniaca degli iris») e alla sua morte gli subentrerà: una sorta di coniugi Curie della botanica. A questa Strada di San Giovanni segretamente amata nonostante l'apparente indifferenza, Italo ha poi dedicato alcune tra le sue pagine più emozionanti; benché quel giardino di montagna in mezzo agli uliveti lui «lo abbia presto venduto, perché Italo parlava bene ma razzolava male: s'è venduto tutte le terre e adesso hanno distrutto tutto...». Chi parla è quel «ragazzo dai capelli lunghi» e «dalla pelle marrone» al quale lo scrittore ha dedicato, nel '47, il racconto Un pomeriggio, Adamo, uno dei suoi primi perfettamente compiuti: si chiama Libereso Guglielmi ed è l'interlocutore di Ippolito Pizzetti in II giardiniere di Calvino, il libro-intervista (non casualmente diviso in tre grandi parti: mattina, pomeriggio e sera, le tappe della vita), che sta per uscire da Muzzio con la prefazione di Nico Orengo. Uliveti, rospi ramarri, capre A Libereso, Pizzetti, con la generosità dell'intelligenza, lascia quasi totalmente la parola inducendo il personaggio, singolare e grandioso, a far rivivere, in un rincorrersi di episodi, bozzetti, commenti pieni di humour, squarci di vita, i protagonisti della sua epopea calviniana. Ma non solo: il percorso di questo barbuto Achab bonario, ateo e mistico adoratore del Sole, diventato uno dei botanici più importanti d'Europa (ma lui preferisce essere solo «il bravo giardiniere»), risulta alla fine assai più complesso. E' un'avventura dello spirito che lo porta, come Orengo con le sue antenne «leggere» d'artista ci invita a scoprire, nelle «geometrie di Calvino», in queH'«ubagu» (l'opaco) che è il risvolto inafferrabile dell'«aprico» e che per Italo stava, anche o soprattutto, «nella Liguria della sua giovinezza: sulle colline tagliate a terrazze, sulla linea delle spiagge. Fra terra e mare, sul confine che orizzonte e montagne stabiliscono con il cielo... Sì Libereso è uno degli "ubagu" di Calvino». Quando incontra per la prima volta Italo diciassettenne, Libereso, che vuol dire Libertà in «idoesperanto», ha 15 anni. E' stato chiamato così da un padre, oltre che esperantista, vegetariano, capellone ante litteram, anarchico «tolstoiano» eternamente bastonato dai fascisti, e che non ha mai voluto sposare la madre dei suoi figli a cui ha dato altri nomi come Germinai, Omnia, Fulcro facendo sussultare gli impiegati dell'anagrafe. E' l'anno in cui scoppia la guerra. Il futuro giardiniere della Meridiana (la casa descritta in La speculazione edilizia) nasce nell'aprile del '25 a Bordighera («istintivamente ho assorbito la primavera»), ma la famiglia è di Perinaldo, lui «fa campagna» su vicino a Baragallo, «eravamo sempre mezzi nudi, scalzi. Se ti tagliavi, ti cucivi la pelle con l'ago... Io stavo qui sopra e il mare non l'avevo visto». Povertà, non miseria. Perché attorno ci sono «ancora» gli uliveti, i rospi, i maggiolini, i ramarri, le capre, quelli che diventeranno i compagni anche del Barone ram- pante, le indimenticabili formiche di Calvino. Un giorno, di lì, passa il professor Mario: osserva Libereso e suo fratello mentre lavorano, gli offre due borse di studio, i ragazzi le vincono, per dieci anni Guglielmi è tenuto come uno di casa: «Sono stato messo nel giardino... Viene Italo, con 'sto grembialino, con le forbicine da potare, i coltellini... lui pigliava tutto e lo sbatteva via: "Io voglio fare il giornalista", e sua madre "Tu fai il giardiniere!". La madre era un po' carognetta: Eva Mameli Calvino, una piccolina così, figlia di un capitano dei carabinieri sardo... Ma grande botanica. Forse più biologa, una delle grandi biologhe italiane...». Che tutti temono, «anche i figli (Italo aveva un fratello minore, Floriano, ottimo geologo morto anche lui, ndr), perché era dura... Non so, forse le giravano le scatole perché io amavo il giardinaggio e i suoi figli non lo amavano affatto, lei li vedeva lì che facevano volare via le forbici... Poi lui, Italo, ha cominciato a scrivere. Un giorno Floriano mi dice: "Se mi dai una sigaretta, ti faccio vedere quello che mio fratello scrive di te"». Un pomeriggio, Adamo è una piccola «story» tra il «nuovo giardiniere» e una camerierina dei Calvino tutta pepe e timidezza, perennemente impaurita dalla padrona. Floriano porta all'amico «un foglio così, ma era appena abbozzato. Ho visto che parlava di me perché ci ha messo proprio il mio nome, Libereso. La moglie di Calvino (Esther-Chichita, ndr) ha detto una volta che questo è l'unico caso in cui lui ha usato il nome vero perché per altri ha usato nomi inventati, come "Ghepeù"...». Libereso ha profondamente amato questa famiglia in cui «tutti erano sinistroidi; anche Calvino il vecchio, il professore era un anarcoide». Ha ammirato quei due genitori che quando Italo era partigiano sono stati messi due volte di fronte al plotone d'esecuzione; quel padre, gentiluomo rude, che partiva ogni mattina con il casco in testa e la sahariana tutta tasche subito riempite di foglie e di radici e che gli insegnava a tenere in mano un ranocchio e una biscia, a fare «lo sciroppo di agave». Con Italo «siamo cresciuti insieme - ci spiega il "bravo giardiniere" con me ci parlava e può darsi che qualche cosa l'abbia imparato da me, più che dal padre, perché a lui Italo non dava mica ascolto». Però «è sempre stato un ragazzo quasi scorbutico; solo ogni tanto aveva degli sprazzi inaspettati. Floriano non era come Italo, lui se ne fregava... Italo no. Italo era un tipo per conto suo... Lavorare non lavorava mai... tant'è che quando diceva che andava su con il padre erano balle... Sono tornato a trovarlo ancora, anche dopo che avevo lasciato il lavoro, lì da loro. Potrei dire che tutto quello che ha scritto son cose vere: non era un idealista. Il barone rampante per esempio, quello che viveva sugli alberi, beh, era suo zio». Un fratello del padre, strambo parecchio: «Una volta palpeggiava una monaca e quella gli ha rotto una brocca sulla zucca: aveva proprio la testa nelle nuvole, è stato su di lui che Italo ha scritto...». Incontravano le stesse persone, Pavese per esempio. «Sì, veniva da noi. Poi Italo mi ha detto: "Sai che si è ucciso?"; io ho avuto un colpo perché ero molto amico». Libereso-Adamo, un primitivo ma soltanto nel cuore abituato a osservare allo stesso modo le pal¬ me, i pompelmi rosa del professor Mario c le persone, non ò per nulla tenero con alcune delle compagne di Calvino: «La moglie non mi piace, almeno da come ne sento parlare. Ha vietato la pubblicazione di parti di alcuni scritti di Italo in un libro Calvino a Sanremo edito senza fini di lucro. Ma lei ha detto "Io queste cose non le conosco". Il mio amico Femia, che ha curato tutto il volume, non può venderne nemmeno una copia, perché lei ha ordinato così». E non gli va giù neppure «la storia con quell'attrice (Elsa De Giorgi, ndr) che poi ha raccontato tutto sul giornale...» La vicenda di Libereso non si ferma certo al '51, l'anno in cui muore Mario Calvino e lui lascia la Meridiana. Considerato oggi il massimo esperto mondiale di macchia mediterranea, Guglielmi ha lavorato in mezza Europa, a Ercolano come a Londra dove ha diretto per anni i giardini reali (e si è anche sposato); conosce a fondo l'Oriente ed è diventato quasi uno yogi «ad un certo punto mi dimenticavo anche di mangiare». Continua a stare «in trincea» per difendere la terra contro gli scempi degli incompetenti, ah i forestali!, di chi vuol fare il giardino con il computer. «Quando ero ragazzo tutti gli uliveti sopra il Poggio erano rossi e bianchi di tulipani... adesso non ce n'è più, tutto perché sono delinquenti; perché, belin, levano tutto e ai posto degli uliveti han messo ga¬ rofani». Invece la vera felicità sarebbe, per Libereso, fare quello che facevano i cinesi: «Mettevano i bambù davanti alle finestre perché il vento frusciando tra i bambù faceva quel dato suono. Quando tu hai capito un po' di questa esperienza e la vuoi portare con te come qualcosa che assume un significato di continuità per la tua vita, questo è il giardino». La sua battaglia ecologica si esprime anche in continui viaggi con i giovani per far conoscere i grandi giardini di tutto il mondo, nel proporre soluzioni a interlocutori in genere sordi: con Pizzetti, per esempio, rilancia adesso l'idea di fare dei Giardini Hanbury alla Mortola una stazione di acclimatamento, riprendendo la filosofia di Mario Calvino, il suo più grande «maestro di vita». «Allora il nostro lavoro era quello di selezionare piante e introdurre piante nuove. Da tutte le parti del mondo arrivavano semi, piante, frutti. Io mangiavo il frutto perché il professor Calvino mi aveva detto:"Mangiali pure, tanto hanno tutti gusto di piscio di cane..."». «Si è allontanato da tutte le parti» Libereso ci racconta un Mario Calvino rude galantuomo «una personalità indubbiamente fuori del comune, una delle cime; anzi dico che se dovessi mettere a confronto Italo e il padre, scelgo il padre». Perché Italo presto comincia ad andarsene lontano, e non solo fisicamente. «Italo per me era una persona molto più profonda di quello che appariva; aveva forse una profondità di sentimenti che non ha mai espresso. C'è un pezzo che lui aveva scritto per un giornale in cui descrive gli storni che arrivano a Roma... per scrivere una cosa così, bisogna avere il sentimento della natura... Ma si è allontanato da tutte le parti...». In questa lunga intervista «live» - come la definisce Pizzetti affascinato dalla continuità-discontinuità del suo interlocutore, sorta di Icaro involato alla Queneau (che cosa di più calviniano?) - Libereso sembra arrivare a un certo momento al cuore del mistero Calvino: «C'è qualcosa che lui uccideva in sé, qualcosa che non voleva. E lui se ne è andato perché non riusciva più a raccontare». Libereso ci arriva non da critico, non da letterato. Ma da uomo che di sé dice: «Non ho mai guardato le grandi cose, ho sempre cercato l'uovo di Colombo, le piccole cose, le cose semplici, quelle che creano le grandi cose». Da uomo che, Orengo aggiunge, «non si stacca dalla natura, vi aderisce. Come una magica salamandra. Che potrebbe, volendolo, confondersi con un cespo di lattuga, una campanula, una macchia di cisti. E' questa capacità di mimetizzarsi e di rendersi invisibile che deve aver colpito Calvino fin da quando, insieme, giravano per i paesi dell'entroterra, fra Baiardo, Badalucco, Poggio. Da un oliveto all'altro, quando sotto gli uliveti crescevano i narcisi». Perché anche Italo Calvino ha tentato per tutta la vita di rendersi invisibile, sino a morirne. Mirella Appiotti «Sua madre gli diceva: tu fai il giardiniere! Ma Italo non ci stava: io farò il giornalista» A lato Cesare Pavese, sopra Italo Calvino, a destra Libereso Guglielmi