Dorothy la linguaccia

Istrionica, beffarda e modernissima: così l'America ricorda la Parker nel suo centenario Istrionica, beffarda e modernissima: così l'America ricorda la Parker nel suo centenario Dorothy, la linguaccia EAltman la celebra con un film A rubrica delle recensioni letterarie di Dorothy Parker sul New Yorker degli Anni Venti seguiva uno schema molto particolare. «E dire che questa era la settimana in cui volevo portarmi avanti con le letture», cominciava per esempio, con una nota personale. Per proseguire lamentandosi: ma ho avuto un mal di testa terribile, ho bevuto troppo, oppure sta arrivando la primavera e non c'è niente che odi di più ecc. E cosa fanno le persone per alleviare le sofferenze di una povera donna ridotta in questo stato? Scrivono libri, e poi si aspettano che uno li recensisca. E giù una valanga di battute pungenti ai danni dell'ultimo manoscritto approdato alla sua scrivania. Non sarà stato un sistema molto ortodosso di condurre una rubrica su una rivista intellettuale come il New Yorker, ma intanto il pubblico raffinato dei Roaring Twenties l'adorava. E Dorothy Parker, che a poco più di vent'anni era già una celebrità, pubblicava nel frattempo tre raccolte di poesie e due di racconti, vinceva con The Big Blond il Premio O'Henry, mentre a Broadway si davano due commedie ispirate al suo personaggio («il giorno che scriverò la mia autobiografia mi accuseranno di plagio»), e nei salotti la gente la seguiva, piccolina e belloccia, nella speranza di captare almeno una delle battute per cui era famosa. «Temo di non riuscire proprio a sopportare tanti stupidi in una volta», le disse uno di questi ammiratori sconosciuti a un cocktail. «Che strano, sua madre evidentemente ci riusciva», sorrideva lei con quel suo umorismo sempre pronto a denudare qualsiasi tipo di presunzione o di retorica. «Witty Dottie», ovvero Dorothy la spiritosa e l'arguta, compirebbe ora cent'anni dalla nascita in una casa nel West Side di New York, e l'occasione viene festeggiata sia qui che laggiù. Prima di tutto dal film Mrs. Parker and the Round Tablers, prodotto da Robert Altman per la regia di Alan Rudolph, con Jennifer Jason Leigh, Jennifer Beals e Matthew Broderick, che vedremo a primavera. E poi dall'edizione delle sue opere complete - racconti, artic .li e poesie che la Tartaruga sta per mandare in libreria {Tanto vale vivere, pp. 451, lire 32 mila), nelle traduzioni di Marisa Caramella e Chiara Libero, a pochi mesi dall'uscita di Scusate le ceneri in cui Gaia de Beaumont (Marsilio) romanzava la sua biografia. Quanta carne al fuoco per una scrittrice tutto sommato snobbata dai letterati, con l'eccezione di Montale che fu il primo a tradurre in Italia i suoi racconti crudeli, commoventi, sardonici e buffi, pieni di ribalderia e di buon senso a caro prezzo. «Solo un autore mediocre è sempre al meglio, e Dorothy Parker non è un autore mediocre», scriveva con la sua leggerissima acutezza Somerset Maugham nell'introduzione alle opere complete della Viking (per inciso, da sempre uno dei grandi best-seller americani), ripresa ora dalla Tartaruga. Ma è anche vero che quando la scrittrice, come fece in Una bella bionda, proiettava sulle sue donne fragilissime, abbandonate dagli uomini e ubriacone, ciò che lei sapeva o temeva per se stessa, i risultati erano di sicuro valore. E le poesie, di incantevole chiarezza, restano un elegante documento del suo tempo. Così la pensava l'amica scrittrice Lillian Hellman, che in Una donna incompiuta disegnava tra l'altro il ritratto di quella personalità fragile e buffa (fu a lei che la Parker telefonò da Hollywood all'indomani delle nozze con lo sceneggiatore Alan Campbell, che sposava per la seconda volta: «Lilly, la sala era piena di gente che non si vedeva da anni, inclusi la sposa e lo sposo»). Aveva vent'anni quando il padre Henry Rothschild, un industriale ebreo che l'aveva cresciuta nell'agio, morì senza lasciarle denaro. Ma lei, che come si dice, aveva talento da vendere, vendette a Vogue la sua capacità di scrivere fulminanti didascalie che attirarono l'attenzione del più vivace Vanity Fair, procurandole a ventiquattro anni la rubrica di teatro. «Se non sapete lavorare a maglia, portatevi un libro», scriveva la Parker a commento di una pièce noiosa: nello stile sarcastico e molto personale che le nuove riviste patinate degli Anni Venti andavano cercando. Purtroppo però il primo matrimonio a 23 anni con Edwin Pond Parker dà il via alle sventure. E la scrittrice prende il vizio dell'alcol, quello di farsi abbandonare dagli uomini, per primo il marito, quello di tentare ripetutamente il suicidio con i metodi più svariati: due volte con i barbiturici, uno col veronal, uno col rasoio sui polsi e l'ultimo con un flacone di lucido da scarpe. Lasciano tutti a desiderare, confidava in una poesia, chiudendo col verso ormai famoso: «Tanto vale vivere». Per uscire da questa solitudine che la stritolava, prese allora l'abitudine di andare ogni sera a sbronzarsi con alcuni amici scrittori e commediografi intorno alla «tavola rotonda» dell'Hotel Algonquin, che allora la gente mitizzava. «Ma non erano giganti», smentiva lei. «Pensate a quelli che a quell'epoca stavano scrivendo: Lardner, Fitzgerald, Faulkner, Hemingway. Quelli sì erano giganti». Questi dell'Algonquin, intellettuali urbani come Benchley, Woolcott e Adams, eccellevano invece nella conversazione. Nessuno di loro, però, ha avuto il coraggio di portare l'ironia fino alla massima crudeltà verso se stessi, come sapeva fare così dolentemente bene Dorothy Parker. Che quando si ritrovò a lavorare in un ufficetto triste e isolato nel palazzo della Opera House di New York, convinse l'imbianchino che veniva a dipingere il suo nome sulla porta, a scrivere al posto di «Mrs. Parker», «Gentlemen»: come dire che per farci entrare un uomo doveva fargli credere che fosse la toilette. Sapeva certamente che la ferocia delle sue battute sempre sussurrate a mezza voce doveva sottolineare il sex appeal della sua figura minuscola e graziosa, con i grandi occhi languidi da gazzella che la facevano sembrare fragilissima. E mai si faceva vedere in pubblico con i suoi occhiali spessi da miope, perché, come dice un suo verso, «Gli uomini di rado fanno la corte alle ragazze con gli occhiali». Politicamente, poi, era a dir poco bizzarra. Marciò per Sacco e Vanzetti nel '21 ; alla propria morte nel '67, lasciò quel che aveva a Martin Luther King; s'iscrisse al partito comunista, simpatizzò con gli emigrati europei che l'America sfruttava, con i movimenti integrazionisti negri, con le femministe, con tutto l'universo più variegato delle vittime con le quali, in quanto donna sempre infelicemente innamorata, si identificava. E persino Fitzgerald, che certo non era un campione di impegno civile e politico, si stupì: «Che Dottie abbia abbracciato la Chiesa (cioè il comunismo), e si dedichi quotidianamente alla sua celebrazione non modifica affatto la sua indifferenza». Anche perché, come ha scritto Lillian Hellman, Dorothy Parker adorava i ricchi di cui le piacevano i vestiti e le case, ma li svillaneggiava con aperto disprezzo; credeva nel socialismo, ma senza riuscire a sopportare la vista di un radicale, specie se della classe operaia. Quanto all'amore, «il suo gusto era pessimo, anche per una scrittrice. Fu amata da parecchi uomini, ma amò solo quelli che non la ricambiavano, ed erano le mezze calze». Proprio per questo, però, il contributo maggiore di Dorothy Parker alla letteratura potrebbe esse- re letto oggi nella sua capacità di smascherare la dipendenza emotiva di molte donne - in questo era in linea con la Austen e le Bronté guardandole piangere, implorare e detestarsi: e la sua originalità stava nel vederle da dentro e da fuori, capendole e allo stesso tempo deplorando, come farebbe un uomo, le loro palpebre rosse e gonfie. Sarà facile, per il lettore, notare che nei racconti e nelle poesie un solo tema l'ossessionava, l'intrecciarsi di vulnerabilità e crudeltà. E se riusciva a rendere sopportabile quell'ossessione agli altri, nella vita, è perché sapeva alleggerirla con l'ironia. Le toccarono prove atroci, terribili, come svegliarsi un mattino accanto al cadavere del marito che si era suicidato con i barbiturici. Tuttavia persino al suo funerale riuscì a non perdere presenza di spirito quando, sulle scale di casa, una donna le chiese con tono mieloso: «Dorothy, cara, c'è qualcosa che posso fare per te?». «Procurami un altro marito», rispose la Parker. Ci fu un attimo di silenzio, poi, prima che qualcuno potesse ridere, la signora dichiarò: «Questa è l'osservazione più insensibile e disgustosa che abbia mai sentito in vita mia». Dorothy sospirò e le rispose: «Mi spiace. Allora corri all'angolo e prendimi un panino al prosciutto e formaggio. Pane di segale. Niente maionese». Livia Manera Alfunerale del marito una donna le chiese: «Posso fare qualcosa?» Lei annuì e rispose: «Sì cara: trovamene subito uno nuovo» Dorothy Parker con il suo secondo marito. A sinistra: Robert Altman Sotto: Lillian Hellman e Eugenio Montale

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