«Il vostro Paese mi ha fatto tre regali» di Oriana Fallaci

«Il vostro Paese mi ha fatto tre regali» «Il vostro Paese mi ha fatto tre regali» Un brano del discorso all'Accademia delle Scienze Sociali ... Ah, quanti anni ho lottato por venire in Cina! A quanta gente ho chiesto aiuto! Al tempo di Mao Tze Tung lo chiesi anche al re della Cambogia, Sihanouk, che in cambio di un chilo di fois gras francese promise di intercedere presso Ciu En-lai. Ho ancora il lungo telegramma che Sihanouk mi mandò a Firenze per fissare i termini dell'accordo: un chilo tondo e francese. Ma neanche questo servì. Quella Cina non mi voleva. Dovetti aspettare la Cina di Deng Xiaoping per realizzare finalmente il mio sogno. Beh, in Italia abbiamo un proverbio: meglio tardi che mai. Lo feci nel 1980, l'anno in cui intervistai Deng Xiaoping (quella straordinaria, inaspettata intervista che troppi di voi non conoscono), il mio primo viaggio in Cina. E nel corso di esso mi accadde una cosa assai bella. Perché - ve ne ricorderete - nell'estate del 1980 piazza Tienanmen era afflitta dalle ciclopiche e baffute immagini di Marx, Engels, Lenin e Stalin: quattro signori i cui comandamenti non coincidevano molto con le riforme che Deng aveva in programma. Così, a un certo punto, gli chiesi: «Signor Deng, che ci fanno quei quattro in piazza Tienanmen?». Deng mi guardò perplesso. Poi, rivolto ai ministri che assistevano all'intervista, borbottò qualcosa come «ma perché sono ancora lì?». E due giorni dopo - quando tornai da lui per completare l'incontro - i ritratti non c'erano più. Li aveva fatti togliere. Ah, quanto mi inorgoglì quel regalo! Mi inorgoglì talmente che rivedendolo persi il controllo, e pazza di gratitudine esclamai: «Signor Deng, quando morirò chiederò che sulla mia tomba venga posta la seguente lapide: Qui giace la donna che fece togliere da piazza Tienanmen i ritratti di Marx, Engels, Lenin e Stalin. Signor Deng, I love you. Io la amo». E, per mitigare lo scandalo, Deng dovette sussurrare ai suoi inor¬ riditi ministri: «Lo dice all'americana». Il mio secondo viaggio si svolse alcuni mesi dopo, quando il presidente Pettini venne in visita ufficiale, e anche in quella occasione mi accadde una cosa assai bella. Un altro regalo. Mi accadde ad Hang Zhou. Perché dinanzi al mio albergo di Hang Zhou sostava dall'alba al tramonto un gruppetto di sette studenti con l'aria di attender qualcuno. E, incuriosita, una mattina mi diressi verso di loro. «Do you speak English?». «Oh, yes!» risposero tutti contenti. «Are you waiting for somebody, aspettate qualcuno?» «Oh, yes!» risposero ancor più contenti. «Chi aspettate?». «You. Lei», risposero addirittura felici. Per parlare andammo sulla riva del lago, ci sedemmo sul prato, e qui mi dissero cose che non dimenticherò mai. Mi dissero che la mia intervista a Deng li aveva incoraggiati, che a leggerla s'erano sentiti meno soli, meno incompresi. Mi dissero che volevano una Cina nuova, una Cina dove la gente sapesse pensare meglio e di più, e dove non fosse rimproverata, peggio ?ncora, punita, per ciò pensava. Mi dissero che amavano disperatamente il loro Paese, che per cambiarlo erano pronti a morire. E infine mi dissero una parola che è la parola più sacra del mondo. Me la dissero rispondendo a domanda. La domanda era: «Cos'è che desiderate con maggior forza per la vostra vita?». E la risposta, la parola, fu: «The freedom. La libertà». Oh, quanto ho pensato a loro quattro anni fa, quel terribile giorno di cui nessuno qui vuol parlare, quel terribile giorno in cui tanti studenti morirono! Questo è il mio terzo viaggio. E arrivando mi sono chiesta quale bella cosa mi sarebbe successa, stavolta. Quale bel regalo. Beh... Credo che la bella cosa, il bel regalo, stavolta, sia trovare una Cina che cambia e potersi augurare che tale cambiamento conduca nel porto che - dopo tante fatiche, tante sofferenze, tanti dolori - il popolo cinese merita. Dico «potersi augurare» perché - voi intellettuali dovete esserne consapevoli - cambiare non significa (o non significa soltanto) costruire buone case, immensi supermarket, splendi¬ di alberghi per i turisti stranieri. Non significa (o non significa soltanto) mutare le regole dell'economia, lavorare meno, mangiare di più, diventare ricchi e moderni. Tanto meno significa rinunciare alle proprie tradizioni, imitare gli errori di noi occidentali, cioè venerare il peggior dio che esista: il Dio Denaro. Cambiare significa ciò di cui parlai con Deng nella straordinaria intervista che troppi di voi non conoscono. Significa ciò che mi dissero i sette studenti di Hang Zhou sulla riva del lago: pensare meglio e di più. E non venir rimproverati - peggio ancora, puniti - per ciò che si pensa. Significa non seppellire sotto il silenzio le brutture e le colpe di cui ci vergogniamo: non illuderci di poterle negare cancellando dalla propria memoria gli eventi che la storia ha registrato. Significa, insomma, non avere paura della verità. E poi significa crescere, allargare i confini del proprio sapere e della propria coscienza: rendersi conto che nessun cambiamento è tale se non approda alla libertà. Oriana Fallaci Ecco uno stralcio del discorso che Oriana Fallaci ha tenuto all'Accademia delle Scienze Sociali della Repubblica Popolare cinese. Ci è stato fornito dall'Istituto italiano di cultura a Pechino, che ha organizzato la serata.