Oriana Fallaci a Pechino: il sogno della libertà di Oriana Fallaci

Intervista con la scrittrice tornata nella Cina di Deng a cent'anni dalla nascita del Grande Timoniere Intervista con la scrittrice tornata nella Cina di Deng a cent'anni dalla nascita del Grande Timoniere Oriana Fallaci a Pechino: il sogno della libertà «Quel terrìbile giorno che nessuno di voi vuole ricordare» AFIRENZE cent'anni dalla nascita di Mao la Cina ha abbracciato Oriana Fallaci, che le ha . 1 parlato di libertà. C'era andata la prima volta nell'80 per la famosa intervista con Deng Xiaoping. Era tornata con il presidente Pertini in visita ufficiale. Ora ci è andata per sé, accolta come un capo di Stato. Troupe del telegionrale all'aeroporto di Pechino. Conferenza stampa. «Special» di un'ora in tv. Servizi sul Quotidiano del Popolo. Una pagine sul Giornale degli operai di Shangai. Cena ufficiale dal ministro dell'Informazione. Discorso nell'aula magna dell'Accademia delle Scienze Sociali di Pechino, la fucina dei cervelli, il Tempio del Sapere, il luogo da cui partì la rivolta studentesca nel giugno 1989. Nessun occidentale vi era mai entrato prima. Presentata dal nostro ambasciatore Oliviero Rossi e da Annamaria Palermo, direttore dell'Istituto italiano di cultura, la scrittrice è stata quasi tre ore dinanzi a centinaia di intellettuali, giornalisti, e molti, molti studenti, assiepati pure nei corridoi dove l'ascoltavano dagli altoparlanti. Giovani arrivati a frotte, su pulmini, nonostante la proibizione di pavidi insegnanti: «Quella è una donna pericolosa, dirà qualcosa di pericoloso. Non dovete andare». (Ma lei dice: «Non succede soltanto in Cina. Succede anche in Italia. Nove anni fa, sulla nave che riportava da Beirut a Livorno il contingente italiano in Libano, un tenente dei paracadutisti condannò a venticinque genuflessioni una recluta colpevole d'avermi chiesto l'autografo. Idiota...»). Sono venuti, gli studenti. Hanno udito, hanno parlato. Nei giorni di Tienanmen, raccontano testimoni, tanti ragazzi erano scesi in piazza portandosi dietro Un uomo. Ora l'hanno ascoltata toccare il tema proibito, della rivolta studentesca e dei suoi troppi caduti. Anche le rappresentanti delle Donne cinesi, sterminata associazione, hanno offerto un banchetto in suo onore. E, per farle maggior festa, hamburger con patatine fritte e Coca-Cola con la cannuccia invece del pranzo cinese che lei si aspettava. In Cina, Oriana Fallaci esercita un'attrazione speciale. E' forse bisogno di un narratore profeta, di un intellettuale amico, lucido, affidabile? 0 Marco Polo che si reincarna sempre in un italiano? Era toccato a padre Matteo Ricci, il gesuita di Macerata che tra il 1500 e il 1600 rivelò la Cina all'Occidente. Era toccato a Curzio Malaparte: un altro di cui i cinesi s'innamorarono. E lui s'innamorò di loro. Adesso tocca a lei vivere questo amore, farsi voce dell'Occidente in Cina e della Cina in Occidente, essere il nuovo Marco Polo di quell'immenso Paese che cambia ed esce dal terrore. Uscendovi scopre - o vuole essere aiutato a scoprire - una parola ignota al suo vocabolario: libertà. Signora Fallaci, a quale pericolo pensa che alludessero i professori che l'avevano definita «una donna pericolosa»? «A quello che parlassi di libertà e degli studenti morti nel massacro del 1989, suppongo. In Cina nessuno ne parla. Neanche con la più vaga allusione. Non pronunciano nemmeno la data "6 luglio". Cioè la data del giorno in cui il massacro avvenne. E non solo a Pechino, cioè in piazza Tienanmen, come crediamo noi, ma in molte altre parti del Paese dove i testimoni non c'erano. Come gli ho detto accusandoli di voler negare, anzi illudersi di poter negare eventi registrati dalla Storia, quella tragedia è così sepolta sotto il silenzio che la si direbbe cancellata dalla loro memoria». Qualcuno le aveva chiesto di tacere? «In Italia, prima che partissi, sì. Sia pure con garbo, con squisita cortesia. A Pechino, no. Per niente. I cinesi sono così educati con lo straniero. Così ospitali. Però, quando gli ho chiesto di tradurmi il testo che avevo preparato e che in Italia non avevo avuto il tempo di farmi tradurre, ho trovato serie resistenze. Il celebre italianista cui m'ero rivolta, ad esempio, ha opposto un rifiuto categorico: "Quel brano io non lo traduco. No". Poi, sempre con squisita cortesia, mi ha ricordato che ero stata invitata a parlare del mio lavoro, dei miei libri: non della Cina. Cosa più che vera. Infatti oltre la metà del mio discorso riguardava i miei libri. E sul mestiere di scrivere ho letto due pagine di lnsciallah. Ho fatto anche ascoltare il primo capitolo del mio audiolibro Lettera a un bambino mai nato. In parole diverse, sì: il brano sulla Cina era, come dire, fuori tema. Ma se vi avessi rinunciato, se non avessi almeno alluso al massacro, se non avessi detto almeno una volta la parola Libertà, mi sarebbe parso di tradire me stessa. Peggio: di tradire i ragazzi che erano venuti ad ascoltarmi. Peggio ancora: di tradire quelli che erano morti quel terribile giorno di quattro anni fa. E cosa è successo mentre ne parlava? «Oh... Sa, quando parlo in pubblico, io ho rapporto quasi fisico con chi mi ascolta. Come un animale che annusa altri animali, lo sento quasi sulla pelle ciò che la gente pensa. E la prima cosa che ho sentito è stata una specie di stupore accompagnato da smarrimento. 0 paura? E' stato quando ho parlato dei ritratti di Marx, Engels, Lenin, e Stalin, cioè quando ho definito "regalo" il fatto che Deng Xiaoping li avesse tolti da piazza Tienanmen... Ma il vero trauma l'ho avvertito quando ho raccontato l'episodio dei sette studenti conosciuti a Heng Zhou nel 1980, cioè quando ho incominciato a parlare di libertà e ho detto d'aver pensato a loro "il terribile giorno che nessuno di voi vuol ricordare". Perché a quel punto lo stupore e lo smarrimento sono diventati tensione. Una tensione guardinga, angosciata». C'è stato un dibattito? «Sì. E' maturato a poco a poco, però. Con grande cautela. Infatti la prima domanda non ha avuto niente a che fare col tema proibito, l'argomento tabù. Me l'ha rivolta una ragazza, una studentessa credo, che chiedeva notizie sulla mia salute. Lo scorso febbraio, quando i giornali scrissero che ero stata operata di cancro, il Quotidiano del Popolo aveva dato la notizia che era moribonda e lei voleva sapere se stavo davvero per morire. Le ho risposto che non ci pensavo nemmeno, che il Quotidiano del Popolo esagera sempre, che non potevo morire perché dovevo combattere e ammazzar l'Alieno deciso ad ammazzare me. Le ho anche spiegato che le malattie mortali o cosiddete mortali hanno un lato molto positi¬ vo, quello di farci amare doppiamente la vita, e questo ha sciolto la loro cautela. Quasi che la paura fosse un cancro peggiore del cancro, si son lanciati nelle domande che speravo. Un ragazzo mi ha chiesto un giudizio sulla Cina che cambia». E lei che gli ha risposto? «Gli ho risposto che il cambiamento c'era, perbacco. Però, ho aggiunto, nessun cambiamento è tale se non approda alla libertà. E Pechino non è la Cina. Che cosa accadeva nelle altre città e nei villaggi della grande Cina? Stando a ciò che avevo letto poche ore avanti suW'Herald Tribu- ne, di cambiamento lì ce n'era poco. Con dovizia di particolari, ì'Herald Tribune raccontava d'un contadino perseguitato dal capo-villaggio e cioè dal capo del locale partito comunista. Perseguitato e addirittura seviziato con pene corporali dinanzi alla moglie incinta. Be', forse quel contadino non moriva di fame come cento o cinquant'anni fa. Ma a me non importava nulla che non morisse di fame. Perché moriva di non-libertà. E morire di non-libertà è peggio che morire di fame». S'è ribellato nessuno? «No! No, no. In tutto quel tempo so¬ no stata attaccata da una persona e basta: un tipo a cui non ero piaciuta la storia dei quattro ritratti tolti da Tien An Men. Era un uomo sui quaranta o cinquant'anni, certo un comunista dell'apparato. Forse, un'ex Guardia Rossa, cioè uno di quelli che durante la Rivoluzione Culturale distruggeva gli antichi templi e ammazzava la gente. Deciso a negare che i quattro ritratti fossero in piazza Tien An Men e che Deng li avesse fatti togliere, s'è rivolto a me in tono arrabbiato e mi ha chiesto: "Dov'erano? Com'erano? In che punto stavano?". Allora mi sono arrabbiata io e gli ho risposto: "Erano proprio al centro della piazza, quasi dinanzi al mausoleo di Mao. Erano giganteschi, alti quanto una casa di due o tre piani, e se ci fossero stati messi per una manifestazione o in perpetuo io non lo so. Però so che erano la cosa più sinistra che abbia mai visto. E se lei non li ha visti, i casi sono due: o è cieco o è bugiardo". I ragazzi sono scoppiati in una gran risata, e la faccenda è finita lì. Peccato perché mi sarebbe piaciuto litigarci un po'». L'intervento più bello? «Quello d'uno studente che studiava italiano e lo parlava abbastanza bene. Un giovane sui venti o ventitré anni. "Io non sono qui per porre una domanda", ha detto, "perché la leggo da quando so leggere e conosco già le risposte. Io so- no qui per ringraziarla a mio nome e a nome dei miei compagni che mi hanno delegato a parlare in quanto conosco l'italiano. Io la ringrazio, noi la ringraziamo, perché attraverso i suoi libri e la sua intervista a Deng lei ci ha insegnato due cose che sono le cose più importanti del mondo: il coraggio e la libertà. Io la ringrazio, noi la ringraziamo, perché con le sue idee e le sue parole lei ha cambiato la nostra vita. La vita di tanti giovani cinesi. Per piacere, non muoia. Si curi bene, cerchi di vivere più a lungo possibile. Abbiamo tanto bisogno di lei, della gente come lei». Lei come ha reagito? «Sono rimasta come una cretina. Paralizzata, ammutolita. Non sapevo che dire, che fare. Infatti ho cercato con gli occhi mia sorella Paola, che viaggiava con me, e con gli occhi le ho chiesto: ora che dico, che faccio? Poi mi sono raschiata la gola e ho balbettato: "Grazie a lei... Scìscì...", che vuol dire grazie in cinese. Di Mao avete parlato? «No. Mai. Neanche di straforo. Mao Tze Tung è morto, stramorto, pei giovani. Di lui non rimane nulla fuorché un corpo imbalsamato male e tenuto in un mausoleo dove non va mai nessuno. Con quel corpo, la piccola fotografia a colori che sta all'ingresso della Città Proibita. Infatti, se mi chiede qual è la cosa più bella che, a parte quella serata, m'è successa in Cina, le rispondo: trovare i famosi distintivi di Mao in vendita nei negozietti di antiquariato e nei mercatini di roba vecchia dove le comprano esclusivamente i turisti. Sì, è straordinario veder quel faccione rotondo accanto agli oggetti di cento anni fa. E' un gran conforto. Perché dimostra che la Vita ridimensiona sempre tutto, e che finisce sempre col vincere sui tiranni e sugli stronzi». E' dunque questo il giudizio che oggi dà su Mao? «Oggi?!?! Io ho sempre dato quel giudizio su Mao. L'ho sempre visto come un personaggio negativo. Negativo come Stalin, come Hitler, come Mussolini, come Khomeini. Io non ho mai capito il fascino che esercitava su tanti occidentali, e ho sempre provato sdegno o amarezza quando certi giornalisti o giornaliste o intellettuali lo esaltavano come un gran rivoluzionario o un gran pensatore. O quando certi studenti italiani pretendevano di dar gli esami sventolando il libretto di Mao. Il libretto di Mao! Porca miseria, la nostra epoca ha partorito tre libretti che sono un insulto all'intelligenza e alla civiltà: il Libretto Verde di Gheddati, il Libretto Azzurro di Khomeini e il Libretto Rosso di Mao. Ma i primi due non sono stati presi sul serio dagli occidentali. Il terzo, invece, sì. E questo è imperdonabile. Vuole il mio giudizio su Mao? Glielo dico subito. Mao ha fatto un gran male al suo Paese e all'Occidente. Al suo Paese perché con la tirannia e lo stupido Libretto Rosso ha addormentato due generazioni di cervelli. Ha umiliato il suo popolo, e in cambio non gli ha dato neanche un po' di benessere. Qualche bagno per lavarsi, ad esempio. Qualche cesso per fare i propri bisogni. Ma lo sa che nelle catapecchie in cui vivono ancora milioni e milioni di cinesi, le catapecchie lasciate da Mao, non vi sono né bagni né cessi? Lo sa che milioni e milioni di cinesi incominciano ora, soltanto ora, a sapere cos'è un water-closet o una doccia? Accidenti, rivoluzionario Mao? Mao non è stato che un altro imperatore». Perché all'Oves* ha fatto male? «Perché una delle disgrazie che in questo secolo sono capitate all'Occidente e in particolare all'Europa, in particolare all'Italia, è stato il fottutissimo 1968 cui gli imbecilli e i tipi in malafede guardano come a "un grande anno": un "balzo in avanti". No, non è stato un grande anno. E' stato un anno maledetto. Non è stato un balzo in avanti. E' stato una battuta d'arresto. Peggio: un ritomo al passato, al fascismo, alla prepotenza, alla pigrizia mentale, alla cretineria. Non a caso sono nate da quell'anno le Brigate Rosse... E il 1968 è stato un prodotto di Mao, una sciagura che senza Mao non ci avrebbe colpito. Perché tutti i sessantottini che ancora oggi osano autocelebrarsi, autocongratularsi - tutti, inclusi quelb che hanno voltato gabbana e sposato il capitalismo e assunto il potere prima vituperato - si sono abbeverati al seno di Mao. Hanno bevuto il latte di Mao, il fascismo di Mao. E della sua mogliaccia, l'imperatrice Chiang Ching. E quel latte, ecco il punto, ce l'hanno ancora in bocca. Anzi dentro il cervello. Punto e basta». A CURA DI Alberto Sinigaglia «Mao Tze Tung è morto e stramorto, peri giovani. Di lui non rimane nulla fuorché un corpo imbalsamato» La Fallaci con Deng nell'80. In alto i monasteri di Xian [foto d. de marco]