«Bravo Bill non ha senso rimanere a Mogadiscio»

«Bravo Bill, non ha senso rimanere a Mogadiscio» «Bravo Bill, non ha senso rimanere a Mogadiscio» L'INTERVENTO AMERICANO IL presidente Clinton merita di essere appoggiato nel suo sforzo di disimpegno dalla Somalia, un Paese in cui gli Usa non hanno alcun interesse nazionale e dove non avremmo mai dovuto farci coinvolgere militarmente. Ma per lui la sfida più grande consisterà nel definire un fondamento concettuale all'intervento americano in quelle regioni nelle quali il nostro interesse nazionale lo richiede. Il problema di base è che i portavoce dell'Amministrazione, incluso il Presidente, sembrano preoccupati di ridimensionare le motivazioni geopolitiche o di sicurezza" riell'utilizzo delle forze armate americane, e di negare che l'interesse nazionale richieda talvolta l'applicazione della nostra potenza. Nei suoi ripetuti appelli a cause di portata globale e ad azioni multilaterali, l'Amministrazione riflette la forma mentis di una generazione la cui esperienza formativa è stata la guerra del Vietnam. Convinti che il disastro vietnamita sia stato causato da un'eccessiva preoccupazione per la sicurezza nazionale, essi hanno la tendenza a sacrificare l'interesse nazionale sull'altare delle avventure multilaterali. Questo punto di vista fraintende il passato e giudica erroneamente il presente. L'America entrò nella guerra d'Indocina come fece per tutte le guerre del Ventesimo Secolo, cioè per sostenere un principio universale, quale fu ad esempio il motto del presidente Wilson: «rendere il mondo sicuro per la democrazia». In Vietnam intervenimmo in base alla dottrina della «sicurezza collettiva», per opporci a quella che ci sembrava un'offensiva militare globale russo-cinese, e per difendere la democrazia da quella che era percepita come una strategia globale di lotta di guerriglia. L'errore dell'America in Indocina non fu di essere troppo nazionalista, ma di essere troppo universalista. Oggi, in situazioni come quella della Somalia, l'appello alla «sicurezza collettiva» è privo tanto di senso quanto di possibilità pratica di realizzazione. Né è di grande aiuto la distinzione fra soluzioni «politiche» e «militari». Le forze armate americane non sono strutturate per compiere missioni umanitarie. E le loro difficoltà sono ulteriormente cresciute quando l'ambasciatrice americana all'Onu, Madeleine Albright, ha aggiunto il «nationbuilding» (la creazione di una nazione) agli scopi dell'intervento. La catastrofe somala è stata prodotta dalla gente del posto. E' il risultato di quel tipo di guerra tribale in cui il presidente Clinton ha affermato che non ci saremmo mai fatti coinvolgere. Sono d'accordo con questo, ma non esiste modo di terminare questa missione umanitaria senza impegnarsi nel «nation-building». E ciò richiederebbe proprio di farci coinvolgere nel tipo di guerra che, ci viene detto, dobbiamo evitare ad ogni costo. Una volta che esiste un conflitto «militare», la situazione sul terreno ne determinerà l'esito «politico». Se in Somalia si cerca una soluzione «politica» che sia diversa dallo status-quo-ante, la si potrà otte- nere solo con pressioni «militari» o con la minaccia di esse. In altre parole la débàcle era implicita nell'intervento, che era condannato fin dall'inizio o a perdersi nel caos e nella fame della Somalia, o a determinare il coinvolgimento americano nella guerra civile. Se è vero, come Clinton ha detto, che «non è nostro compito ricostruire la Somalia come società o come struttura politica», come può seguire che nella stessa conferenza stampa si annunci che mandiamo personale militare a Haiti «per riaddestrarne l'esercito e ricostruire la nazione»? Perché ci mette così in imbarazzo ammettere che Haiti, essendo vicina, rappresenta per noi una preoccupazione di sicurezza nazionale mentre la Somalia, essendo lontana, no? Il problema Somalia è emerso in una fase della vita dell'Amministrazione abbastanza precoce da aiutarla a stabilire, per il futuro, quali dovranno essere la natura e i limiti degli interventi militari americani all'estero. In gioco deve esserci un interesse ame- ricano che gli americani possano capire. Se non c'è altro obiettivo che realizzare i desideri dell'opinione pubblica internazionale; se non si è in grado di dire alle famiglie americane che i loro cari rischiano la vita per accrescere la sicurezza e il benessere degli Stati Uniti, non sarà possibile sostenere lo sforzo fino a raggiungere il successo. Questo interesse nazionale dovrà essere traducibile in una missione militare che si compia entro un periodo compatibile con i tempi del processo politico americano. Se altre nazioni mostreranno punti di vista affini ai nostri, gli Usa dovranno essere pronti a cooperare con loro - come è avvenuto per la guerra del Golfo. Ciò che non dobbiamo permettere è che gli obiettivi della missione vengano definiti dalle invocazioni internazionali. Nello sviluppare una strategia nazionale, l'Amministrazione dovrebbe tenere a mente che le buone intenzioni hanno entusiasticamente sostenuto l'avvio di tutti i nostri disastri nazionali, dall'Indocina alla Somalia. In questo momento, la saggezza corrente applaude la politica americana in Russia, che viene presentata come una difesa della causa della democrazia contro la dittatura, tutto sulla base del sostegno a un leader. Ma davvero sappiamo abbastanza di come funziona la democrazia in società e culture distanti da noi? Chiaramente, nell'ultimo sconvolgimento moscovita Eltsin era di gran lunga preferibile alla feccia di fascisti, ex comunisti e fanatici nazionalisti che sostenevano il Parlamento. La ragione non è che Eltsin sia un democratico - cosa ancora da dimostrare - ma perché è meno probabile, rispetto ai suoi rivali, che egli persegua politiche contrarie ai nostri interessi. E questa è una valutazione di sicurezza nazionale, non di morale. L'organizzazione dei territori che appartenevano all'Unione Sovietica continuerà ad influenzare la pace dell'Europa in futuro. Fra gli Stati «successori» c'è l'Ucraina (con una popolazione pari a quella della Francia) e diverse altre Repubbliche comparabili per dimensioni e importan- za a Paesi europei di media taglia. Essi sono negletti dalla nuova Amministrazione. Le insistenti richieste di accesso alla Nato da parte di Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca testimoniano la loro percezione dei problemi della sicurezza europea. Se Mosca riedifica il suo impero con la forza o con le pressioni, riappariranno alcuni degli schemi della guerra fredda, come fanno temere le recenti mosse russe verso Moldavia, Georgia, Azerbaigian, Tagikistan, Ucraina e Baltico. L'Amministrazione non ha dato indicazione a Mosca di esserne preoccupata. E infine, i nostri ripetuti proclami sul grande successo della politica americana in Russia non rivelano una certa arroganza? Possiamo credere davvero che Eltsin ha vinto in quanto da noi benedetto, piuttosto che per l'appoggio datogli dall'esercito russo? Le nostre affermazioni non potrebbero indurre Eltsin a dissociarsi da noi, per dimostrare il suo impegno nazionalistico? L'Amministrazione si è dimostrata molto sensibile ai problemi genuinamente globali: proliferazione nucleare, sviluppo economico, ambiente e promozione i delle libere istituzioni. Ma finora non si è molto impegnata nella rifondazione dell'Alleanza atlantica, nella tessitura di legami fra la Nato e i Paesi europei già satelliti dell'Urss, in un maturo dialogo con la Cina (benché su questo punto stia facendo progressi) o nello stabilire un dialogo con le Repubbliche ex sovietiche, Russia a parte. In vista di questi fini, ha bisogno di elaborare una concezione dell'interesse nazionale. Ad ogni modo, gli errori dell'Amministrazione Clinton sono stati finora soprattutto di omissione. Nel definire una sua propria politica estera, nessun presidente dai tempi di Truman si è trovato di fronte a una tale pagina bianca. Truman impiegò quattro anni a stabilire una nuova dottrina della politica estera americana. E' dunque troppo presto per aspettarsi da Clinton risposte conclusive. Ma non è troppo presto per porre domande appropriate. Henry Kissinger Copyright «Los Angeles Times Syndicate» e per l'Italia «La Stampa» «La dottrina estera della Casa Bianca è vecchia e superata» Soldati Italiani a Mogadiscio Qui a fianco, Henry Kissinger