Maccari:non ho sparato a Moro

Conso: sulla vicenda Moro dobbiamo fare ancora passi avanti, anche se saranno dolorosi Maccari: non ho sparato a Moro «Mi accusano sfogliando la margherita» L'ACCUSATO DALLA FARANDA PROMA RIMA dicevano che l'assassino di Aldo Moro era Gallinari, che uccideva e rideva. Adesso dicono che Gallinari piangeva e che a uccidere siamo stati io e Moretti. Ma che credibilità hanno questi pentiti? E sarebbero arrivati a me sfogliando la margherita, per intuito. Ma quando mai la cosiddetta intelligence italiana ha fatto qualcosa da sola, senza pentiti? Comunque io non c'entro. Ho chiesto di essere messo a confronto con gli inquilini del palazzo di via Montalcini, ho chiesto anche la perizia grafica, perché non fanno indagini invece di credere solo alla pentita?». Arriva lentamente, zoppicando su una sola scarpa da tennis azzurra, le stampelle a sorreggere l'ingessatura alla gamba destra, l'aria un po' affaticata. Ecco Germano Maccari, il famoso «quarto uomo» del commando che avrebbe tenuto prigioniero Aldo Moro per cinquantacinque lunghi giorni in via Montalcini, l'uomo che, secondo la testimonianza di Adriana Faranda, avrebe sparato, insieme a Mario Moretti, al presidente della democrazia cristiana sul bagagliaio della Renault rossa. Un'accusa che, se pure toglie a Prospero Gallinari quel ruolo simbolico che da anni (a causa di una deduzione del pentito Antonio Savasta) lo vuole esecutore materiale del delitto Moro, può costare a Maccari una condanna all'ergastolo. Siamo al G 12 lato B del carcere di Rebibbia, qui c'è Germano Maccari, insieme a ex militanti delle Brigate rosse che si chiamano Piccioni, Seghetti, Abatangelo e a Piccinino, ex esponente dei Nap. Nessuno insulta Adriana Faranda né la sua decisione di diventare teste d'accusa. Maccari la chiama insistentemente «la pentita», ma non commenta. «Io sono sereno dice -, ero sereno anche quando mi sono accorto, saranno stati i primi di settembre, che sotto casa mia c'era la polizia. Come facevo a non notarlo, ci saranno state almeno quindici persone, una folla. Ma che dovevo fare? Ho continuato a fare la mia vita normale. Persino negli ultimi momenti, il giorno prima che mi arrestassero, ero andato all'ospedale San Camillo a trovare mio padre che aveva avuto una piccola operazione, torno a casa e vedo questo affollamento di poliziotti. Come mi vedono, frr (fa il gesto con la mano), spariscono. Ma cosa credevano, di essere invisibili?». Sorride, stringe le spalle nella felpa grigia, sistema le stampelle, allunga il piede ingessato. Intuisce il filo della memoria che va a tempi lontani, alle maniere brusche che accompagnavano gli arresti. «No, non mi è successo niente, il tallone me lo sono rotto quest'estate in montagna, per motivi diciamo ecologici. Mi ero arrampicato su un albero per vedere un nido di uccelli, sono caduto e mi sono insaccato il piede». Ma l'aria sofferente è altro: «Siamo sempre fermi all'Inquisizione, alla ricerca del Grande vecchio. Nella prigione di Aldo Moro ci dovevano per forza essere le Brigate rosse e insieme gente strana, camorristi e agenti segreti. Non digeriscono il fatto che le Brigate rosse fossero fatte di proletari, di compagni. Che dei proletari possano aver interrogato Moro senza aver bisogno di chissà quali suggeritori». Ma lei stesso è stato descritto come un po' anomalo, senza lavoro ma con un orologio costosissimo. E lui si guarda il polso un po' bianco, una macchia sull'abbronzatura: «Sì, un Rolex da venti milioni. Ma quali venti milioni? E' un orologio di oro e acciaio che ho da vent'anni...». Poi parla di politica, si capisce che ne è fuori da un bel po': «Non so cosa ne pensino i compagni, ma bisognerebbe mettersi intorno a un tavolo, perché la parola fine di questa storia sarà possibile solo se la sinistra farà una ricostruzione serena con noi sugli Anni Settanta». La conversazione si fa generale, si parla di quell'ipotesi un po' singolare della presenza di un uomo della 'ndrangheta calabrese in via Fani. «Ma hanno trovato nelle basi delle Br decine di manuali, che spiegavano la rigidità nell'arruolamento, mesi e mesi di controlli, soprattutto dopo che si era infiltrato frate Girotto. Come possono pensare che uno chiamato l'esaurito potesse inserirsi in strutture così rigide». Tutti quanti polemizzano con il pci-pds (la continuità nel vedere ovunque complotti), con il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, il democristiano Giovanni Galloni (sono loro, i democristiani, ad avere gli scheletri nell'armadio, non noi), con la trasmissione di Michele Santoro (Il rosso e il nero, che loro chiamano osti¬ natamente Samarcanda) che ipotizza «strane» presenze in via Fani quel 16 marzo 1978 in cui Moro fu rapito e la sua scorta annientata. «Loro non vogliono la verità - continua Maccari - vogliono solo che si confermi la loro tesi. Se qualcuno dei servizi aveva trovato un covo e non l'ha denunciato, questi sono fatti loro. Qui ci sono solo ex militanti delle Br che pagano con decine di anni di carcere». E fanno notare, gli altri, che ancora non hanno avuto il trasferimento a un'altra sezione, al G 8 dove ci sono Prospero Gallinari e gli altri loro compagni. Qui al G 12 ormai ci sono solo condannati per fatti di camorra e 'ndrangheta. «E c'è qualcuno che li aizza contro di noi», dicono. Sono preoccupati, e c'è da domandarsi come mai anche Germano Maccari sia stato messo proprio qui. Insieme a uomini della camorra e della 'ndrangheta. Tiziana IMaiolo «Vogliono per forza far entrare in quella prigione camorristi e agenti segreti» Il ritrovamento del corpo di Moro A sinistra: Germano Maccari «Vogliono per forza far entrare in quella prigione camorristi e agenti segreti» Il ritrovamento del corpo di Moro A sinistra: Germano Maccari