r di Mario Ciriello
r ANALISI Londra-Washington l'asse incrinato ILONDRA L governo britannico è «furibondo», commentano con accenti glaciali i funzionari al numero 10 di Downing Street: e aggiungono che il premier John Major attende da Washington «chiarimenti e precisazioni». La collera inglese è comprensibile. Senza tanti ambagi, il presidente Clinton ha accusato Major d'aver sacrificato la Bosnia pur di non mettere a repentaglio la sopravvivenza del suo fragile governo: «Mi disse che non era sicuro di poter sorreggere la sua amministrazione qualora avesse accettato il piano Usa». Ma il conflitto non è soltanto politico. Dopo le dichiarazioni di Clinton e quelle, assai più sferzanti, del segretario di Stato Christopher, più nulla resta di uno storico ponte transatlantico, la «special relationship». Meglio così. Questo ponte non esiste più da tempo, i suoi gagliardi pilastri e le sue belle arcate sono soltanto un ricordo. Un ricordo pericoloso, malsano, perché non ce governo inglese che non l'abbia evocato nel tentativo di giustificare politiche sbagliate, obsolete, perché è a questa illusione, di un exclusive club angloamericano, che si aggrappano tuttora gli eurofobi e gli euroscettici più cocciuti. Warren Christopher non l'ha menzionata neppure la «special relationship». Ha detto chiaro e netto che «l'Europa occidentale» non è più «l'area dominante del mondo»: che l'America sembra anzi aver più amici in Asia, i cui leader, a differenza degli europei, hanno maggior comprensione per i problemi degli Stati Uniti. La «special relationship» conobbe la sua ora più radiosa durante la seconda guerra mondiale, fu l'incudine su cui Londra e Washington foggiavano la spada che trafìsse il fascismo italiano, il nazismo tedesco e il militarismo imperialista giapponese: poi l'America cominciò subito a limare i privilegi della «relazione», a favore di un dialogo «atlantico». I L'Inghilterra invece - che, coI me spiegò Dean Acheson negli Anni 50, «aveva perso un impero ma non aveva trovato un nuovo ruolo» - tentava in ogni modo di tenere in vita la partnership. Ancora nel 1957, il premier Macmillan vedeva negli Stati Uniti la nuova Roma e nella vecchia Inghilterra una nuova Grecia. «Il potere è passato dalla Gran Bretagna all'America, ma noi, come i greci con Roma, possiamo civilizzarla e talvolta influenzarla». La guerra delle Falkland ridiede ossa e muscoli alla «special leadership»: ma fu fenomeno passeggero, e neppure la calda ammirazione americana per Margaret Thatcher impedì agli Stati Uniti di guardare all'Inghilterra con crescente distacco. Ed era inevitabile. Il potere politico americano non aveva più le sue radici sulla costa atlantica, tra l'eastern establishment, ma scaturiva da altre regioni, come il Texas e la California, dove la parola England significava poco o nulla. Allo stesso tempo, scemava, inarrestabile, il peso diplomatico ed economico di quest'isola, sempre più povera, sempre più divisa e tenacemente ostile a un abbraccio troppo stretto con i vicini d'Oltremanica. Con l'eleganza d'espressione che era tra le sue molte virtù, il columnist americano Walter Lippmann scrisse durante la prima guerra mondiale: «Noi abbiamo con i britannici l'intimità discorde che regna tra i soci d'affari e nelle famiglie». Oggi quella «discordant intimacy» è impensabile: gli affari angloamericani sono spinti nell'ombra dagli affari euro o nippo-americani, i vincoli famigliari si sono affievoliti in una nazione, gli Stati Uniti, che è sempre più plurirazziale. Non c'è neppure un nemico comune, né nazismo né comunismo. E allora? Come ripetono da tempo i saggi, questa «special relationship», già quasi priva di ogni valote politico, è destinata ad evolversi in una fratellanza linguistica e culturale. Non sarebbe poco. Ora che l'inglese è divenuto il nuovo latino planetario. Mario Ciriello
Persone citate: Clinton, Dean Acheson, John Major, Macmillan, Margaret Thatcher, Walter Lippmann, Warren Christopher
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