La Superba annaspa senza vento

E' quarta in Italia per disoccupazione giovanile, dopo tre province del Sud GENOVA. Tutti contro tutti, ma persino i candidati a sindaco corrono «a malincuore» La Superba annaspa, senza vento Una crisi anomala, tra torpore e protesta SGENOVA UPERATI i topi e i tossici che vanno e vengono per i vicoli, arrivi al palazzo Negrone, gioiello del Cinquecento, con stucchi, scalone, rimbombo, e in cima ti aspetta il marchese Vittorio Negrone, militante raffinato, allegro, che saluta tutti con l'inchino e alle signore pure il baciamano. «Ma sì, ma sì, sono leghista anch'io. Questo, modestamemente, è il mio palazzo. Ho pensato di prestare questo quartierino al movimento. Attento allo scalino, venga, quello che vede è la sezione Centro storico della Lega Nord Liguria. Procedo con le presentazioni. Noi, se posso dire, siamo il cuore del problema... E la sua soluzione. Venga». Alt. Lasciamoli fermi così una quindicina tra uomini e donne, commercianti, impiegati, un paio di architetti, un insegnante, uno studente -, tutti ex qualcosa, tutti arrabbiatissimi, tutti accomodati sulle sedie bianche della bianca sezione. Loro fermi un minutino e noi dentro al nero di Genova. Genova che ti riempie di tristezza, per la sua bellezza assediata dalla crisi e dal torpore, ma anche dall'insipienza, dalla stupidità. Arrivandoci di sera, vedi le luci come stelle sgocciolate, lungo i 33 chilometri di cemento, un teatro sul mare, dove si invecchia e non si nasce, dove le fabbriche vengono mangiate dalla salsedine, si chiudono i bidoni siderurgici dell'Iri, si risparmia, si aspettano investimenti pubblici, posti pubblici, rimborsi pubblici. Si resiste con i forti acquartierati sulle colline e la città in bilico tra la montagna e il mare. Una cartolina sotto la pioggia, ma pronta a sfaldarsi. Si vota tra un mese. Piove ogni dì. Se fai il giro delle sette chiese - sindacati, partiti, industriali, cervelloni - è come stare su un taxi senza tassista, «belin, questa città è un casino senza donne» ti ripetono tutti, e se non c'è l'alluvione a bloccarla, ci pensano gli edili, i portuali, gli studenti, gli insegnanti. Tutti hanno la loro guerra privata da combattere. I giovani perché non trovano lavoro. Gli adulti perché lo stanno perdendo. I commercianti contro gli immigrati. Gli immigrati contro i controlli. Si lamentano pure le puttane di via del Campo, celebri quanto il pesto e la Lanterna, stufe assai dei genovesi depressi. La Ginetta, con camiciola fiorita, ti fa: «La città ha perso la sua giovinezza: non sa più divertirsi, non sa più combattere. Io i genovesi li vedo, camminano col culo stretto, l'occhio spento. E tremano quando c'è la pioggia». Nel tutti contro tutti, ci sono entrati, diresti a malincuore, i candidati sindaci. Una mezza dozzina in corsa. Ma contano solo in tre: il magistrato Adriano Sansa, ex pretore d'assalto sponsorizzato dalla sinistra (pds, verdi, pannelliani, Allean- za); il democristiano Ugo Signorini, ex assessore regionale, mai sfiorato da inchieste, 30 mila preferenze alle ultime amministrative; il leghista Enrico Serra, ortopedico, uno di cui nessuno sa nulla, salvo che potrebbe vincere. Non ha meriti, non ha colpe, è pronto a incassare la protesta. Protesta che fa vibrare, qui nella sezione Centro storico della Lega, l'ex extraparlamentare Stefano Soggiu: «I partiti ci hannno distrutto e svenduto, ora gli presenteremo il conto. Mille miliardi buttati nelle Colombiane. Altri mille portati via dall'alluvione, quando si sapeva benissimo che bastava rimettere in ordine il territorio per salvarci dall'acqua». Dice l'insegnante: «Disgraziati». Dice l'impiegata comunale: «E' colpa della mafia comunista». Dice la pensionata: «La gente ora è pronta a ribellarsi». Dice l'ex dirigente Cesare Simonetti: «Anche agli arabi che ci hanno mandato per rovinarci». Dice il marchese: «Calma, signori». Giusto, fermi lì, e avanti col taccuino. Le proiezioni danno il candidato pds e quello leghista favoriti al ballottaggio. E se così andrà, dicono gli espertissimi, sarà la Lega a mangiarsi i voti del centro necessari alla vittoria finale. Bel paradosso: la città più assistita del Nord dritta in braccio ai nemici di ogni assistenzialismo. La più romanizzata, in mano agli antiromani. Con i suoi 678 mila cittadini, un terzo di Liguria, Genova viaggia da tempo verso Sud. Negli ultimi dieci anni ha perso 50 mila posti di lavoro, 33 mila solo nell'industria, in futuro andrà peggio, e intanto si tiene aggrappata allo stipendio statale: ha 98 addetti al pubblico impiego ogni 100 lavoratori dell'industria, il doppio di Milano (51 ogni 100), la metà di Napoli (178 ogni 100), ma il triplo dell'Italia del Nord (36 ogni 100). I prepensionamenti che hanno scandito la crisi di quasi tutto quello che qui era concentrato (siderurgia, impiantistica, elettromeccanica) hanno fatto di Genova città primatista in pensioni. Scomparsi i socialisti, in declino gli ex pei, oggi l'organizzazione politica di gran lunga maggioritaria è il sindacato pensionati: 50 mila iscritti, 42 sedi in città. Vanno in pensione operai specializzati, tecnici di prima qualità, controllori di processo. Magari ancora giovani, ma già senza prospettive, senza mercato, inutili. E fuori dalla produzione hanno due sole strade: invecchiare dentro alle centinaia di associazioni (canasta, ballo liscio, lirica, viaggio, funghi, francobolli) che prosperano a Genova più che in qualsiasi altra città italiana, oppure cercarsi un lavoro, purché in nero, finendo per diventare concorrenti con i disoccupati veri, i giovani. Risultato? Che Genova è quarta in Italia per disoccupazione giovanile, dopo tre pro- vince del Sud. Che Genova aggrava da sé la sua crisi, nega il futuro alla generazione che ne ha più bisogno, vive senza slancio, senza figli, senza consumi. «A dirla tutta è una città che vive di rendita», sospira Diego Cattivelli, segretario Cisl. Una bella rendita, comunque: 24 milioni di reddito procapite, più di Sondrio, appena meno di Trento. «Ecco perché qui non c'è dramma. Questa non è Crotone, il declino di Genova avverrà per lenta implosione», dice Gianni Baget Bozzo, che dall'ottavo piano del suo terrazzo guarda e si rammarica, ma senza tristezza, con fatalismo, da genovese. Lui la vede così: «L'ultimo grande borghese che avrebbe potuto salvare la città è Angelo Costa. Negli Anni Sessanta sognava di aprire Genova verso Rivalta, collegarla con trasporti veloci e farla crescere verso la Padania. Niente. Tutti - i partiti, i sindacati, i portuali, gli industriali - hanno concorso al blocco della città. Ci siamo messi a costruire navi quando era vincente il trasporto aereo, abbiamo investito nell'acciaio quando tutti in Europa lo abbandonavano. Abbiamo permesso che le partecipazioni statali si mangiassero le nostre industrie. Siamo diventati ostaggio dei partiti». Questa è l'ora della vendetta? «Sì, della vendetta più ingenua, quella contro Roma». Alla parola Roma, i nostri quindici leghisti della sezione Centro storico non li tieni più fermi, ed è ora di ascoltarli, perché dopo giorni di inchiesta e di chiacchiere nella città, ti accorgi che il loro fronte è quello più compatto, più oltranzista, più trasversale («tra noi ci sono dai nobili agli ex brigatisti») e che la battaglia delle prossime settimane sarà combattuta da questi militanti, più che da qualunque altro esercito, compreso quello comunista, o ex comunista, sfibrato da emorragie (politiche) e inchieste (giudiziarie). «Le dicevo - argomenta il marchese - che noi siamo il problema, e per noi intendo gli abitanti del centro storico. Mi creda: le vie e i palazzi che ci circondano, quelli che lo scorso luglio hanno fatto tanto rumo- re, ed era rivolta vera, sono il cuore della città. Se smette di battere questo cuore, muore Genova». Interrompe Stefano: «Noi non lo permetteremo, a costo di tornare in piazza con i tubi Innocenti». «E' l'unico modo per farci sentire - dice una signora -. Lei lo sa che qui si vive in mezzo agli escrementi e ai topi?». «I topi peggiori hanno due gambe e parlano arabo». «Giusto». «Noi, del quartiere, ne faremo un salotto». «Salotto», parola magica. Come «turismo», «porticciolo», «aeroporto», «Nizza». Per esempio: «A Nizza pregano che Genova resti così, per loro è una pacchia, con l'aeroporto pieno di italiani, e i porticcioli zeppi di nostri turisti». L'Expo è andata male? Riconvertiamo gli alberghi in miniappartamenti. Il traffico è una trappola? Ridisegniamo tutto. Il centro storico affonda? Dichiariamolo zona turistica. Che sia tutta qui la soluzione di cui parlava il marchese? Sembra un sogno ragazzino, tutto che dovrà funzionare, tutto che dovrà essere pulito, i negozi aperti sempre, i ristoranti pieni, la bella gente delle barche e degli aeroporti. «Le soluzioni buone sono quelle semplici», ti dice l'ottimista Bruno Ravera, segretario della Lega, quello che ha buttato nella spazzatura le 90 cartelle di programma elettorale scritte dai «professori ex sinistri», come Franco Monteverde ex direttore dell'Istituto Gramsci passato alla Lega. «Passato un corno dice Ravera -, con quelli ci andiamo piano. Ci vogliono riempire di parole, piani, progetti, studi. Ma va! Genova ha bisogno di gente con le palle per rimettere ordine». E i dieci, quindici, venti mila extracomunitari? A casa loro. E i pensionati, i disoccupati, la città sfibrata, il tirare a campare con i soldi pubblici? E le periferie arrampicate sui deserti delle colline? E il porto che lavora al 30 per cento? I pidiessini parlano un'altra lingua, ovvio: compatibilità, tolleranza, sviluppo, piccoli passi. Ma hanno un intero passato da farsi perdonare. Troppe parole, troppe sconfitte, troppo cemento senza destinazione. Puntano su un magistrato, articolo che di questi tempi tira parecchio, ma anche misura della loro politica inceppata. E uno dei loro dirigenti (anonimo) ti dice: «La Genova che conoscevamo è dissolta, noi non ci capiamo più niente». Amen. Forse di tutte le città che navigano verso il voto di novembre, Genova è la più disarmata e la più disarmante, anche se il marchese Negrone fa l'inchino col sorriso: «Non si stupisca. Noi siamo gente di mare: troppa bonaccia ci sfibra, ma se troviamo un filo di vento, ripartiamo alla grande». Sarà. Ma i guai non vengono tanto dal mare, quanto dalle troppe pozzanghere di terra. Pino Corrias Il marchese Negrone offre il suo palazzo alla Lega «Noi siamo la soluzione» E' quarta in Italia per disoccupazione giovanile, dopo tre province del Sud Tanti conflitti come guerre private dag}i immigrati ai posti di lavoro (50 mila in meno in dieci anni) Sopra: Enrico Serra, ortopedico, candidato per la Lega A destra: Ugo Signorini, de A sinistra: Adriano Sansa, magistrato, candidato da pds, Alleanza, verdi, Pannella