Paladini del «quieto vivere» di Francesco La Licata
Paladini del «quieto vivere» Paladini del «quieto vivere» Le carriere costruite sulla paura del nuovo NEL PALAZZO DEI VELENI AROMA DESSO è l'ora della magistratura palermitana degli «anni belli», quella del «quieto vivere», per dirla con le parole che Giulio Andreotti ha adoperato per spiegare la linea morbida che numerosi governi hanno adottato nella lotta alla mafia. E un altro pezzo di credibilità delle istituzioni di questo Paese se ne va, sotto i colpi degli avvisi di garanzia del procuratore Tinebra, chiamato a verificare una serie di accuse che alcuni collaboratori della giustizia muovono a diversi magistrati del «palazzaccio» di Palermo. Già, il ricordo del palazzo dei veleni - se dovessero prendere corpo i sospetti della magistratura di Caltanissetta - sarebbe poca cosa rispetto alla gravità degli addebiti che vengono mossi ai cinque giudici dai pentiti. Invidie, faide, l'isolamento di colleghi impegnati - come Falcone, Borsellino e gli altri del pool antimafia - diventano peccati veniali a fronte del sospetto che numerose toghe del tribunale di Palermo si prestavano, per paura o per collusione, ad «aggiustare» i processi. Alla faccia di quanti hanno sacrificato la vita e di quelli che continuano a rischiarla. Sono giudici famosi, quelli coinvolti nell'ultimo scandalo. Nomi che fanno parte della storia giudiziaria di Palermo, magistrati che da anni calpestano i corridoi del «Palazzo» e tornano puntualmente sulle colonne dei giornali cittadini. Pasquale Barreca, Giuseppe Prinzivalli, il presidente Aiello, il presidente D'Antoni e il giudice Mollica: quante polemiche, quanti bisbiglii, nel corso dell'ultima tormentata storia palermitana. Garantisti? Qualcuno anche in modo palese, ma per la maggior parte si tratta di personaggi schivi, quasi inafferrabili, abituati a «lavorare sulle carte», spesso contrariati dal nuovo modo di amministrare giustizia introdotto da magistrati come Caponnetto, o Falcone, o Borsellino. Proprio con quest'ultimo ebbe una polemica violenta il presidente Prinzivalli, all'epoca del processo ai presunti autori della strage di cortile Macello. Lui presiedeva la corte d'assise, il rinvio a giudizio lo aveva firmato Borsellino. Tra gli imputati Vernengo, il boss di piazza Scaffa, territorio nel quale fu eseguita la strage. Il giudice istruttore aveva applicato il «teorema della cupola», svelato da Buscetta: cioè un fatto di sangue rilevante porta l'avallo del «gruppo dirigente di Cosa nostra» e la «responsabilità organizzativa» del capo mandamento della zona dove viene eseguito. La corte assolse gli imputati, e fin qui nulla di eccezionale. Fece impressione, però, la durezza degli argomenti con cui Prinzivalli motivò la sentenza di asso¬ luzione. Lo stesso Borsellino rimase colpito, leggendo i pesanti commenti alla sua istruttoria. Ma non era quello l'unico episodio in cui si evidenziava la diversità di vedute tra Prinzivalli e il pool antimafia. Uno scontro duro arrivò col «maxi-ter», cioè il terzo troncone del maxiprocesso istruito da Falcone e dagli altri. Anche in quell'occasione il «teorema Buscetta» abortì: Michele Greco fu assolto nel corso del processo che era cominciato con una singolare «querelle». La corte non voleva che i pentiti, seppure per motivi di sicurezza, stessero nel bunker anche nelle ore extraprocessuali: «questo non è un carcere». Ci volle un decreto del ministro (allora era Vassalli) che dichiarava l'aula «zona carceraria». Lo scontro fu forte anche quella volta: il pm Gianfranco Garofalo, per protesta abbandonò la magistratura penale. Anche Barreca si è meritato i titoli sui giornali. Fu lui che contestò il decreto di Martelli che stabiliva di «calmierare» l'eccesso di concessione degli arresti domiciliari ai mafiosi. Ma il magistrato sosteneva che il provvedimento non poteva essere retroattivo e quindi non era applicabile per quelli che il carcere in casa lo avevano già ottenuto. Il risultato fu che Pietro Vernengo, ammalato e ricoverato in ospedale, lasciò la corsia salutando rispettosamente. Giudice garantista, Barreca non credette al pentito Vincenzo Calcara che accusava - accusandosi - il boss Mariano Agate di aver ucciso Vito Lipari, ex sindaco de di Castelvetrano. Fu assolto, Agate. Anche se in primo grado, senza la testimonianza di Calcara, aveva preso l'ergastolo. Ora i pentiti dicono che sono tanti i processi «aggiustati» da Cosa nostra. E raccontano particolari, fatti, nomi e cognomi. Anche in Cassazione arrivava la «Catena di Sant'Antonio»: il presidente Aiello lavorava alla prima sezione, dopo essere stato per anni in corte d'assise a Palermo. Giudicò gli assassini del capitano Basile, anzi sarebbe più giusto dire «non giudicò». Invece di una sentenza, infatti, produsse un'ordinanza per una perizia sul fango trovato nelle scarpe dei presunti killer. I tre imputati, però, uscirono per decorrenza dei termini, furono mandati all'Asinara da dove scapparono poche ore dopo il loro arrivo. Andava così, allora. Il palazzo di giustizia aveva i suoi tempi e i suoi sistemi. La mafia uccideva anche in quel tempo ed era esattamente com'è adesso. Però non si vedeva, si nascondeva, appunto, dietro al «quieto vivere». Il giocattolo si ruppe quando arrivarono quei megalomani che pretendevano di fare i maxiprocessi. Francesco La Licata
Luoghi citati: Caltanissetta, Castelvetrano, Falcone, Lipari, Palermo, Vito
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