Genova in lutto per il suo ultimo mito di Mimmo Candito

Sette pagine sul «Secolo XIX», gran folla alla messa in memoria del presidente sampdoriano Sette pagine sul «Secolo XIX», gran folla alla messa in memoria del presidente sampdoriano Genova in lutto per il suo ultimo mito La città si unisce piangendo la morte di Mantovani GLI «ORFANI» DELLA LANTERNA GENOVA DAL NOSTRO INVIATO Ave Maria piena di grazia. C'era un vento leggero, ieri sera, che veniva su dal mare e muoveva appena le foglie dei pochi alberi sopravvissuti, in questa città ammazzata dal cemento anche ad Albaro, che è il quartiere buono, dei signori, di quelli che le palanche le hanno o le hanno fatte. Santa Maria madre di Dio, rispondeva a mezza voce il coro della piccola folla di gente qualunque che riempiva la chiesetta di S. Teresa del Bambin Gesù e tracimava fin sulla strada, ma il vento si portava via veloce l'eco della preghiera e la catena lunga dei misteri gaudiosi che il prete recitava in memoria di Paolo Mantovani, il presidente morto della Sampdoria, ora steso lì, in mezzo alla folla, dentro la penombra della chiesa, suo ultimo passaggio nelle cronache pubbliche. Ma che tristezza, Genova, in questi giorni di un autunno difficile, bagnata di temporali, di disoccupati senza più illusioni, di quartieri in rivolta, di poliziotti in corteo, di studenti che scioperano, di. portuali che sbattono fuori dal porto il loro presidente, e di un presidente del pallone che se ne muore nel lutto che pare di una città intera. Mantovani era l'uomo che aveva portato la Samp allo scudetto, la Samp che è 1'«altra» squadra di Genova: non il glorioso Grifone dalla storia lunga un secolo e dalle radici orgogliosamente cittadine, ma la squadra della periferia che si inurba, dei gabibbi, degli immigrati venuti dal Sud e che cercano una bandiera e la trovano a strisce bianche e blu. Bisognava tagliar via dal vecchio centro della città, e salire su per i picchi ruvidi di Quezzi o di Oregina, o spingersi fino a Coronata o Molassana, per vedere cos'era in questi anni la rabbia tra le due città, gli uni che sbranano gli altri, le bandiere la domenica sui balconi, e i piccoli bar della periferia che tornavano a essere il cuore credibile di una società sull'orlo dello spappolamento. Però la fine di Mantovani, ieri, non solo è parsa cancellare tutti questi odi, e i furori, e la rabbia velenosa, dando quasi l'impressione che il rispetto verso la morte sia una realtà seria e temuta, ma questa scomparsa di un uomo comunque del pallone ha finito per assumere il valore di un lutto traumatico per un'intera società. Il «Secolo XIX», che è il giornale cittadino, ha dato alla notizia le prime sette pagine. Una roba che neanche lo sbarco sulla Luna. Mario Sconcerti, il direttore del «Secolo», sorride tranquillo: «Non è stata una decisione facile, e ne abbiamo anche discusso a lungo. Ma alla fine ci siamo convinti che fosse dovuto, per alcune ragioni: anzitutto, l'eccezionalità della figura di Mantovani; poi il fatto che noi siamo il giornale di Geno- va; e infine che questa città, ritenuta fredda, distaccata, malata di individualismi, riconosce nel calcio il proprio bisogno di essere passionale e perfino volgare». Sconcerti guarda i dati delle vendite, e trova conferme: «Il netto incremento dimostra che abbiamo saputo interpretare le emozioni della gente». Già, le emozioni. L'ing. Italo Benso, che è un attento lettore del Secolo XIX, ieri mattina, quando ha avuto il giornale tra le mani, «quasi non mi capacitavo. Ma come, succedono un mondo di cose, ci sono scioperi, arrestano 200 criminali in tutta Italia, si scoprono altri misteri sulla morte di Moro, e io sfogliavo, e sfogliavo, e non ci arrivavo mai. In questi tempi di dibattiti aspri sull'informazione e sulla misura del reale che l'informazione deve saper mantenere, mi pare che non si sia fatto il dovuto». Insomma, l'ing. Benso, che è stato presidente del Gruppo Giovani industriali, non si riconosce affatto in questo «lutto cittadino», e non per Mantovani, naturalmente, «ma perché mi pare che la città abbia ben altri problemi, e ben più gravi, che non quelli di una squadra di calcio». La scelta di Sconcerti ha comunque traversato le strade della società genovese, tutta la società; ha fatto discutere, ragionare, ha promosso anche rabbie nuove e indignazioni. «Però anche consensi - dice Sconcerti -. Le telefonate che abbiamo ricevuto, migliaia, più di 14 bobine di telefonate, erano sì di doriani in cordoglio, ma - almeno per un quarto - anche di genoani. E per chi sa di calcio, e degli odi tra le tifoserie, questo è un dato da registrare con molta attenzione. Ha un significato che bisogna saper cogliere». Il prof. Chito Guala, sociolo¬ go, tenta un'analisi, non vuole esprimere giudizi di valore. «A me sembra che questa storia sia soprattutto il sintomo di una cultura localistica. Genova è una grande città ma è anche un po' provincia, e qui i simboli locali sono molto forti: l'identificazione con la squadra diventa perciò un processo quasi inevitabile, comunque trascinante. Se perciò l'emozione a Genova è stata forte, se la partecipazione collettiva al sentimento del lutto e della perdita grave per la squadra è stata diffusa, questo conferma una reale priorità di valori». Ma Guala, che dichiara di saper poco o nulla di calcio, va anche oltre, entrando cioè nello specifico di questo rapporto di identificazione: «La Samp ha rappresentato un'immagine vincente, di successo. E' stata una società che Mantovani ha sputo gestire con autentico spirito imprenditoriale, valorizzando i suoi uomini, rifiutando le scelte facili del mercato, impostando programmi a lunga scadenza. Genova, anche se è una città provinciale, è comunque una città di forte cultura industriale, di forte spirito mangeriale: perciò il lutto collettivo, il lutto di una città, se veramente c'è, esprime la sublimazione di questo riconoscimento positivo nella figura di Mantovani-imprenditore, sia pure del pallone». Per una città in crisi, insomma, con un indice di disoccupazione che è il doppio di quello del Nord Italia, con un modello di sviluppo ormai fallito, con le industrie che scappano via e non le sostituisce ancora un bel niente, con un porto che ha tradito negli accaparramenti frazionanti il progetto della privatizzazione, di fronte a tutta questa rabbia e scoramento e preoccupazioni senza età lo scudetto della Samp era stato assai più che un fatto calcistico: era la rivincita sulle paure comuni, sul posto di lavoro perduto, sull'alluvione che ha allagato case e negozi, sui soldi che non arrivano più dallo Stato. Mantovani aveva interpretato nell'immaginario collettivo il risarcimento di una comunità che ha perduto ormai quasi tutti i referenti della propria identificazione. «Ma c'è anche di più - dice Attilio Sartori, battagliero e straordinario sindacalista del Ponente - Mantovani era anche l'interpretazione più felice del- la tipologia ligure, o comunque genovese: sobrio, reticente, di poche parole e di ancor meno gesti, lui esprimeva compiutamente agli occhi dei tifosi, ma non soltanto dei tifosi, quelli che sono i caratteri essenziali della nostra gente. L'uomo senza storia poteva alla fine riconoscersi anche in lui, e vedere nel suo successo la proiezione in qualche modo delle speranze tradite di un successo anche nella vita difficile di ciascuno di noi. Il calcio è una religione collettiva, soddisfa i bisogni collettivi della mitizzazione, del sacro rituale. Nella scom¬ parsa ignominiosa degli uomini politici, che questi bisogni avrebbero dovuto saper rappresentare, Paolo Mantovani era l'uomo che li sostituiva ma era anche l'uomo degli ossi di seppia, uno come tanti in Liguria». Si disegna, progressivamente, il profilo di una storia individuale che si perde e si confonde alla fine dentro lo spessore vivo della storia di una città difficile, e smarrita dentro la crisi. «Certo, che i problemi di Genova sono ben altri e che ben più profonda è l'amarezza collettiva, nel comune quotidiano, ieri come oggi, che non la morte di un presidente di club pallonaro. Quando sento dire che la città è a lutto, scrollo le spalle e tiro dritto. Ma la società è un corpo complesso, e io non voglio ignorare nulla di questa complessità». Aggiunge Guala: «Questi sono fenomeni tipici, nella storia dell'antropologia. Voglio dire che in questo "lutto collettivo" si può leggere una funzione manifesta - l'espressione del cordoglio più o meno diffuso - ma anche una manifestazione latente, cioè l'esaltazione della tenuta del gruppo. E gruppo, qui, è non solo la squadra o la tifoseria, ma l'intera città». Ieri mattina, a Cornigliano, un lavoratore delle acciaierie, Aldo Repetto, che aveva appena ricevuto la lettera che lo mette "in mobilità", diceva che «son tutte musse». A Genova, come ormai ogni giorno, anche ieri il prefetto ha ricevuto i leader di un corteo di protesta che aveva sfilato per le strade della città con la rabbia di chi ormai vede nero. E non per lutto. Mimmo Candito Ma c'è chi critica l'eccessivo risalto dato all'evento: «I veri problemi sono altri» Sopra, la figlia di Mantovani, tra Mancini e Lombardo all'uscita dalla camera ardente. A destra la festa per lo scudetto. Sotto, Paolo Mantovani1