Quel fortino di ombre in guerra da vent'anni

Un mondo a parte che ha bisogno di avere nemici per resistere Quel fortino di ombre in guerra da vent'anni NEL «COVO» DELLA RABBIA MILANO ON si vede subito, ma c'è, spunta da sopra il portone, è la sentinella del Leonka, un cavallino di pezza, bianco, anzi grigio-inverno. E' lì dai mesi dell'ultima campagna elettorale, quando il candidato sindaco Formentini girava la città promettendo: «Spazzerò via il Leoncavallo». Invece il cavallino è ancora lì che fa la guardia. Se la cava, anche se di nome fa «Fottuto». Che ci sia sole o pioggia, quando entri al Leoncavallo è come lasciarsi alle spalle i colori, tutto vira al nero o al grigio, i muri, i tavoli e le sedie sfondate, le panche, i graffiti. Tutto raggelato in questa perpetua assenza di luce, effetto di un sole che si è spento da tanto tempo. Un buio da bombardamento, guardate laggiù, sul muro grande, la pancia di un B 52 e la sua colata di bombe. Un perpetuo fantasma del Vietnam, anche lui conservato nel freddo, qui in via Leoncavallo ventidue, Casoretto, Milano. Il mondo di fuori, dove si muovono automobili e tailleur, televisione, vita quotidiana, commerci, computer, resterebbe allarmato da tanta ombra sintetica e cattivi odori, dalle paste scotte della cucina a 5 mila lire prezzo fisso, troverebbe grottesco chiudercisi dentro, organizzarne la difesa, anziché scappare via. Ma questo fa parte della differenza: è la sua misura. Questo è territorio di guerra, o almeno sembra. Un tempo la mobilitazione era contro i fascisti, ma pure contro il sindacato venduto ai padroni, o i bottegai evasori, o gli skin razzisti. Ora il male è la Lega, e il peggio di ogni peggio è Formentini, l'eroe nero, che in verità li ha fatti diventare simbolo. «Io sei Tu e Tu sei Noi», dice una scheggia di muro. Ma il «noi» non si capisce, è solo coreografia e stupore (orecchini al naso, anfibi, tute militari, minigonne, stracci, visi ragazzini e facce da reduci) se non ci si infila dentro alla sua storia. Che comincia un bel po' di tempo fa, inverno 1975, quando Milano pullulava di gruppi extraparlamentari e di fabbriche, quando il pei di Berlinguer inseguiva il sorpasso. Quando il quartiere era pieno di operai che facevano politica e i figli degli operai facevano anche loro politica. Memoria: «Noi avevamo un comitato di quartiere, sapevamo che c'era questo capannone abbandonato, una fabbrica farmaceutica che serviva a nessuno e allora un pomeriggio siamo andati e pum, abbiamo sfondato il portone, che non era un portone, era una robetta così, e via, siamo entrati». E bisogna sapere che allora i gruppi erano lì lì per entrare in crisi, ultima fiammata le elezioni del giugno 1976, quando il pei sembrava dovesse proprio strapparla la maggioranza del Pause e invece arrivò a un soffio, tanto che nell'ultrasinistra si coniò il sospiro: «Moriremo democri- stiam». «Sì, non ci si rassegnava e "morire" è il verbo giusto perché quello è il momento in cui inizia tutto il guaio del terrorismo e della sua deriva, mentre i gruppi si sciolgono oppure entrano in sonno perpetuo, e i ragazzi delle periferie non sanno più dove andare a sbattere, arriva il nulla, l'eroina, nascono i circoli del proletariato giovanile, che sono come una coda di stella cometa dietro alla grande fiamma dell'Autonomia». E in un giorno di quasi primavera, si apre la prima ferita. E' il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento Moro, all'inizio della notte, in via Mancinelli, l'agguato a Fausto e Iaio, tre colpi di pistola a testa, non si sa ancora oggi sparati da chi, fascisti, spacciatori, malavitosi. E nella stessa notte un corteo spontaneo, con fiamme che si accendono nella città e la mattina un corteo lunghissimo che passerà davanti al marciapiede ancora sporco di sangue per lasciare centinaia di lettere, poesie, messaggi, addii, diventati libro: «Che idea morire di marzo», manifesto della perpetua nostalgia di ogni giovinezza. Il Leoncavallo è un punto che irradia. Uno dei molti accampamenti di quella che Nanni Balestrini e Primo Moroni chiameranno l'Orda d'oro, barbari in marcia a caccia di identità. «Protagonisti di un processo di autovalorizzazioni» dirà nel suo dialetto Toni Negri, che poi significava feste del proletariato giovanile (al parco Lambro), ronde antidroga, espropri, autoriduzioni ai concerti con scontri, raid, cacciata di Antonello Venditti a colpi di pietra e dei Santana a colpi di molotov. «Antagonisti e basta», si chiameranno da sé le molte tribù che agli sgoccioli dei Settanta si troveranno spiazzati dalla guerra brigatista e poi schiacciati dalla repressione. Sgomberati senza tante storie, nei fabbriconi e negli appartamenti, non solo qui a Milano, ma pure a Padova, Bologna, Roma. Muta cento volte la geografia dei centri sociali, ma il Leoncavallo, per caso o fortuna, o condanna, non lo tocca nessuno. Resta, ma cambia dentro. Uno stanzone viene affittato ai punk, ragazzi che hanno smesso di credere alla comunicazione verbale, per affidarsi a quella dei segni che però sono segni specialissimi, abitano il corpo. Lo cambiano, come i capelli colorati, lo trasformano, come i tatuaggi. Dicono: «Noi siamo la malattia della città, noi siamo il virus». E perciò decidono di chiamarsi così, Virus, solo che il primo ad ammalarsi è il Leonka, un febbrone che finisce male, con una maxirissa tra i nuovi arrivati punk e i vecchi occupanti che erano «ceto politico vetusto, miseria rigorista». I punk cambiano marcia al Centro: non più iniziative per il fuori, il quartiere, «il territorio», ma tutto per sé, autoriflesso: concerti, riviste, foste, tutto consentito purché resti dentro, tranne l'eroina, tranne ogni droga dura che distrugge. Chiusura totale con l'esterno: un gruppo di sociologi organizza un convegno sulle bande giovanili. Loro fanno irruzione in sala: «Volete studiarci? Analizzate questo» e in una mezza dozzina si fanno avanti a torso nudo, tagliandosi pelle e carne con lamette da barba, sgocciolano sangue i. il sangue finisce sulla carta delle relazioni: «Analizzatelo e diteci chi siamo». Loro dentro al bunker, chiusi come asceti della perdizione, con musica metallica a tutto volume e fuori l'allegria degli Anni Ottanta che conquista Milano, colorandola pastello, o almeno sembra, drink e moda, giunte rosse, poi rosa, poi chissà. I punk se ne vanno in cerca di altre storie, affascinati dai racconti di Gibson e dagli incubi di Burroughs, ad allestire le loro reti telematiche con Amsterdam e Berlino. Arriva l'89 e in uno dei giorni più caldi, il 16 agosto, Pillitteri cerca il suo Muro da buttare giù. Battaglia campale all'alba, assalto con i blindati e i lacrimogeni, duecento ragazzi asserragliati dalla notte, che rispondono con mattoni e bottiglie. Poi l'armistizio tra le macerie: «Lotta, lotta, lotta, il Leoncavallo non si tocca». Altra mitologia, altro reducismo, che viene tramandato, che fa proseliti. Adesso il segno degli anni, il peso della rabbia, il milione di parole dette, le infinite storie: tutto qui sui muri, strati di vernice nei punti in cui il nero si scrosta. La faccia di Ernesto Guevara e quella di Brecht, il manuale per resistere contro gli sfratti e quello per coltivare pulito. La musica ultraamericana del Public Enemy e gli scritti della Raf tedesca. «Io sei Tu e Tu sei Noi». Ma qual è il «noi» nessuno lo sa. Pino Corrias Un mondo a parte che ha bisogno di avere nemici per resistere Gli occupanti del Leoncavallo e (sopra) il sindaco Formentini

Luoghi citati: Berlino, Bologna, Milano, Padova, Roma, Vietnam