E il «giallo» continua dopo 15 anni di vergogna

E il «giallo» continua dopo 15 anni di vergogna ANALISI E il «giallo» continua dopo 15 anni di vergogna NESSUNA nazione aveva assistito al rapimento del suo più importante statista come successe in Italia per 55 giorni con Aldo Moro. Nessuna nazione, credo, dopo 15 anni riesce a dare un'immagine di sé come quella che sta dando l'Italia di questi giorni. Dopo quattro processi, tonnellate di testimonianze, moltitudini di «pentiti» e «dissociati», decine di libri e alcuni film le notizie che rimbalzano dalle inchieste giudiziarie sono sconcertanti. Prendiamo in considerazione solamente gli ultimi giorni. Dopo 15 anni si scopre che la ricostruzione dellasparatoria di via Fani, punto fermo delle inchieste, non funziona per niente. Come minimo era necessaria la presenza di un'altra persona. Subito dopo veniamo informati che, a custodire Aldo Moro nella prigione di via Montalcini, c'era un «quarto uomo» e viene arrestato uno sconosciuto, con marginalissimi precedenti nel terrorismo romano. Infine, ieri, veniamo informati che il generale dei carabinieri Francesco Delfino avrebbe avuto un infiltrato nelle Brigate rosse, il calabrese Antonio Nirta, pezzo grossissimo della 'ndrangheta dell'Aspromonte e che questi avrebbe addirittura partecipato all'azione militare di via Fani. Le informazioni vengono dal «pentito» Saverio Morabito, altro affiliato della 'ndrangheta calabrese, che in tutto segreto, da almeno un anno, collabora con la Procura milanese, che quindi si immagina abbia avuto tutto il tempo di valutarne la credibilità. Tornando indietro di anni, avevamo avuto notizia che tutti gli investigatori che si occuparono del rapimento Moro, erano affiliati alla P2 di Licio Gelli, che certo Moro non amava. Tornando indietro di pochi mesi, abbiamo saputo dai «pentiti» di mafia, Tommaso Buscetta in particolare, che Cosa nostra venne interessata alla liberazione di Aldo Moro, ma che poi si ritirò comprendendo che il suo interessamento non era gradito. E, sempre da Buscetta, abbiamo appreso che il progetto di uccidere il generale Dalla Chiesa datava dal 1978, perché questi, entrato nel «covo» brigatista di via Montenevoso aveva trattenuto carte compromettenti per Giulio Andreotti. Poi apprendemmo che dell'esistenza di queste «carte segrete» erano a conoscenza in molti, o, tramite lo stesso generale Dalla Chiesa, il giornalista ricattatore Mino Pecorelli, che per questo fu ammazzato. E che Pecorelli fu ammazzato da Cosa nostra siciliana, su interessamento dei cugini Salvo, ricchissimi finanzieri de siciliani e naturalmente mafiosi. Ragione per cui è indagato Andreotti. Non basta: appare ormai fin troppo documentato che una parte consistente, per lo meno nel depistaggio delle indagini durante il rapimento Moro, fu assunta dai delinquenti della banda romana «della Magliana». Di tutti questi intrecci, quello più clamoroso e fresco riguarda ovviamente la 'ndrangheta calabrese. Ma non è del tutto nuovo. Ne parlavano, durante il rapimento, per telefono, il deputato de Benito Cazora e il segretario di Moro, Sereno Freato. Diceva l'onorevole Cazora, incaricato di prendere contatti con la 'ndrangheta per trovare una soluzione: «Mi hanno telefonato per avvertire che in una delle foto prese sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio, noto a loro». Foto, scattate da dilettanti dai balconi di via Fani, effettivamente ce n'erano, ma erano sparite. Il senatore del pei Sergio Flamigni, solitario detective, per anni ne chiese notizia, senza ottenere risposte convincenti. Gli dissero che erano state distrutte perché non importanti. Ora, naturalmente, si dovrà vedere come andarono quelle - per lo meno frettolose operazioni di distruzione di testimonianze. E, ora che viene aperto lo sconcertante filone calabrese, sarà sottoposta a vaglio la carriera del generale Francesco Delfino, che dall'originario paese di Piatì raggiunse Brescia ai tempi della strage di piazza della Loggia, ebbe importanti incarichi internazionali in Medio Oriente, partecipò non limpidamente alle indagini sulla bomba di Bologna, fu braccio destro di Dalla Chiesa ed entrò per primo nel «covo» di via Montenevoso. E infine, dieci mesi fa, rientrò dagli Usa per raccogliere la testimonianza del mafioso Baldassarre Di Maggio, decisiva per arrestare il «capo dei capi» Totò Riina. E' una storia destinata a non finire, quella del sequestro e dell'uccisione di Moro. Il prigioniero lo aveva scritto, prevedendo scie di sangue e di maledizione sull'Italia. Salgono dal sottosuolo pentiti con le loro verità, che si incrociano con generali pieni di segreti. Unico a non trovare nulla di strano in tutto quanto continua a succedere - P2, mafia, verbali che scompaiono e ricompaiono (ma sempre in fotocopia, mai in originale) - è il capo dell'operazione brigatista di 15 anni fa, Mario Moretti. Ammesso che fosse lui il capo. Enrico Deagl

Luoghi citati: Bologna, Brescia, Italia, Medio Oriente, Usa