«Un capo della'ndrangheta in vìa Fani»

Antonio Nirta sarebbe stato infiltrato all'interno del commando terrorista dai servizi segreti Antonio Nirta sarebbe stato infiltrato all'interno del commando terrorista dai servizi segreti «Un capo della 'ndrangheta in vìa Fani» Lo rivela un pentito: partecipò al sequestro Moro ROMA. Dalla mafia al caso Moro. Non è la prima volta che le cose di Cosa Nostra, non solo quella siciliana, si intrecciano con i misteri del sequestro e dell'omicidio del presidente democristiano. E stavolta la rivelazione arriva da un pentito della 'ndrangheta calabrese: Saverio Morabito, l'uomo che con le sue dichiarazioni ha permesso ad investigatori e magistrati di fare luce su molti omicidi e sequestri di persona. C'era un uomo della 'ndrangheta, la mattina del 16 marzo 1978, in via Mario Fani, quando le Br rapirono Aldo Moro. Un boss di rango, Antonio Nirta, originario di San Luca (una delle «capitali» dei sequestri di persona), che secondo Morabito era confidente del generale Delfino. Una rivelazione che, se fosse vera, sarebbe esplosiva e sconcertante insieme; per adesso rida fiato ad alcuni dei misteri del caso Moro, richiamando due vicende ancora oscure: quella di un rullino di fotografie scattate in via Fani pochi minuti dopo il sequestro e poi inspiegabilmente scomparso, e la presenza di un colonnello del Sismi in quella zona la mattina del rapimento Moro. Morabito parla de relato, cioè per aver sentito dire queste cose da altre persone, ma il sostituto procuratore di Milano Alberto Nobili scrive che le sue confessioni vanno vagliate con la massima attenzione, annunciando la trasmissione degli atti alla magistratura romana. «Per venire al punto più delicato - scrive il magistrato nel capitolo sul caso Moro del provvedimento di cattura - riferì il Morabito che proprio grazie ai suoi contatti con i Servizi, e verosimilmente con il generale Delfino, il Nirta fu praticamente "infiltrato" tra le Brigate rosse e fu fisicamente presente al sequestro dell'on. Aldo Moro, sia pure con ruolo non potuto precisare». Ed eccoci alle «fonti» del pentito: «Riferì il Morabito, in particolare, di aver appreso la circostanza da Papalia Domenico e da Sergi Paolo e, quindi, da due persone di primissimo piano del contesto malavitoso di cui si parla ('ndrangheta) e la cui parola, in ispecie quella del Papalia, assumerebbe il rango di "veridicità intrinseca", così come già sostenutosi, mutatis mutandis, nei processi su Cosa Nostra in riferimento alle confidenze effettuate da "uomini d'onore"...». Morabito cominciò a parlare di 'ndrangheta e caso Moro un anno fa, nell'ottobre del 1992, inserendo questo argomento nei discorsi sulle collusioni della mafia calabrese con altri apparati e organizzazioni, come la massoneria. Le sue dichiarazioni passeranno ora per competenza alla Procura di Roma che ancora indaga sul sequestro e l'omicidio del leader democristiano, ma intanto sono state inserite nel provvedimento del giudice milanese, e questo ha creato un certo sconcerto tra i magistrati della capitale. Anche perché il giudice Nobili, cita, «a riscontro della sostanziale, comunque, affidabilità del Morabito», articoli di giornale e libri. Pubblicazioni che parlano, appunto, della «pista calabrese», comparsa sulla scena del caso Moro già a ridosso del sequestro. E' l'ex deputato de Benito Cazora, che durante i 55 giorni del sequestro si adoperò per trovare il modo di arrivare alla prigione di Moro, a introdurre l'argomento con il segretario del lea¬ der rapito, Sereno Freato. In una telefonata intercettata dalla polizia si parla di alcune fotografie scattate in via Fani da un abitante della zona pochi minuti dopo il sequestro. «Mi servono le foto del 16 marzo... - diceva Cazora a Freato - perché loro... Pare che uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù... Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertirmi che in una foto presa sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio no¬ to a loro...». «Loro» sono dei personaggi della malavita calabrese ai quali Cazora aveva chiesto aiuto per individuare la base brigatista dove poteva essere tenuto Aldo Moro. Le fotografie di cui si parla sono scomparse, e questo è sempre stato uno dei misteri delle investigazioni sul sequestro Moro, a cui accennò anche Mino Pecorelli nell'ultimo numero di «O.P.» pubblicato prima che venisse ucciso, il 20 marzo 1979. Consegnate dal testimone alla polizia, furono lasciate fuori dall'inchiesta «perché ritenute di nessun valore probatorio». E quando si è tentato di rintracciarle, anche sulla base delle rivelazioni successive al tentativo di Cazora, non si riuscì a trovarle, e un'ispezione ministeriale stabilì che «la scomparsa delle foto è da addebitare alla pura negligenza del magistrato», l'allora sostituto procuratore Luciano Infelisi. Ma il pentito Morabito mette in relazione la presenza di Antonio Nirta in via Fani con «i suoi contatti con Servizi segreti». E un uomo del Sismi, il colonnello Camillo Guglielmi, si trovava effettivamente in via Fani la mattina del 16 marzo '78. Lo rivelò un paio d'anni fa un ex carabiniere, il quale raccontò che il colonnello disse «di non aver potuto far niente per intervenire». La magistratura aprì un'inchiesta specifica sul ruolo del Sismi nel caso Moro, e Guglielmi non potè negare davanti al giudice di essere passato nella via dove fu sequestrato il leader democristiano, ma specificò di non aver assistito al rapimento. E soprattutto di non essersi trovato lì «per motivi di servizio». Come giustificazione della sua presenza nella zona del rapimento disse che si stava recando a pranzo da un amico. Ma erano le 9,30 del mattino, un po' presto per un invito a pranzo. Giovanni Bianconi Si riparla dell'ufficiale Sismi visto sul luogo dell'agguato mortale Via Fani, teatro del sequestro Moro avvenuto il 16 marzo del 1978. Sotto, Sereno Freato, che fu segretario del leader de

Luoghi citati: Calabria, Milano, Roma