Un corriere dell'orrore bussa alla Croce Rossa di Vincenzo Tessandori

Un corriere dell'orrore busso olio Croce Rosso Un corriere dell'orrore busso olio Croce Rosso MOGADISCIO DAL NOSTRO INVIATO Il piccolo corteo avanzava lento in pieno sole. Tre giovani con un grosso sacco scuro preceduti da un «eldcr», un notabile anziano, magro, lo sguardo fiero, i capelli bianchi e la barba da capra. Le 9,15, ecco un'altra ora da ricordare per Suzan Hofstetter, 39 anni, di Zermatt, funzionario del Comité International ginevrino della Croce Rossa. Da dieci mesi si trova in Somalia e prima è stata nello Sri Lanka e le tragedie del mondo ha imparato a conoscerle a fondo. Ma ieri ha dovuto raccogliere i resti forse di un Ranger e queste son cose che ti rimangono impresse. Lei era dentro il recinto della sede della Croce Rossa in cima a una collinetta nel quartiere di Hodan, vicino al Quinto chilometro, vicino all'inferno. Il gruppo ha bussato al cancello celeste sul quale spicca il cartello in due lingue: «No weapons - Hub lama oggola», «Niente armi». L'elder ha indicato il sacco e ha detto: «E' un americano», poi si è voltato e se ne sono andati tutti. «Era difficile guardarlo, era un corpo morto da una settimana, puzzava terribilmente. Sì, era un bianco, ma non aveva piastrina e non sappiamo il nome», dice Suzanne Hofstetter, cercando di dare alle parole un tono distaccato, professionale. «E' il terzo corpo che ci portano. Perché a noi? Ma perché avevamo protestato quando i primi corpi dei militari furono tagliati e trascinati per il mercato. E loro, gli anziani, avevano riconosciuto che eran cose non lecite perché tutte le religioni onorano i morti». Quel corpo irriconoscibile è stato raccolto dentro un bodybag, uno di quei sacchi neri dentro ai quali tornavano a casa i tanti morti del Vietnam. Poi lo hanno portato all'ospedale svedese, alle spalle del quartier generale Onu. Ma quanti sono i missing, gli scomparsi della battaglia del 3 ottobre? «Ufficialmente non lo sappiamo, non ce l'hanno detto, ma forse sono sei». Gli americani non parlano volentieri degli insuccessi, lasciano capire che nessuno ha dimenticato il pilota Mike Durant, ma non fanno parola di un progetto per la liberazione. Eppure Durant è proprio qui a Mogadiscio, Suzan Hofstetter ha potuto parlargli e due giornalisti intervistarlo nella sua cella, in una casa bassa del centro inespugnabile. Si discute, sembra, sull'opportunità di un rilascio fra gli anziani degli Hawiya-haberghidir, quelli su cui conta Aidid. Ma c'è un altro casco blu ancora in ostaggio, un nigeriano del quale si parla sempre meno perché è imbarazzante ammettere di non riuscire a controllare con 14 mila uomini (28 mila in tutto il Paese) questa città dominata dai fantasmi. Ma come cadono le tenebre i soldati abbandonano le strade per ritirarsi dietro ai trinceramenti e basta il fruscio di un topo per far sparare le mitragliatrici Browning. Arriveranno altri soldati yankee, ma niente sbarco trionfale, come a dicembre, niente tivù in diretta, niente Cnn per reclamizzare l'efficienza della macchina bellica più potente del mondo. «I nuovi contingenti non fanno parte dell'Onu», ha precisato John Gersh, viso quadrato, occhiali da miope e pochi capelli, portavoce delle Us Forces. «Sono forze aggiuntive, aiuteranno l'Orni. Rimarranno di base sulle navi». Ma quale sarà il loro compito? «Non sono autorizzato a discutere operazioni future». Dunque, gli americani lasciano capire di considerare tutt'altro che chiusa la partita con Aidid. Anche Farouk Mallawi, portavoce civile delle Nazioni Unite, è in difficoltà quando gli viene chiesto se davvero l'Onu tiene ancora in carcere 25 somali arrestati durante e subito dopo gli ultimi cruenti scontri. «Non è un'informazione disponibile». Ma subito dopo aggiunge che la data per un eventuale processo non è stata decisa. Anche se si è sparato la notte scorsa, anche se i miliziani hanno attaccato a colpi di mortaio i pakistani al punto di controllo dell'obelisco, miracolosamente in piedi, la politica segue le sue tortuose strade. Un incontro fra i grandi dell'Africa Orientale e Boutros Ghali, segretario generale dell'Onu, dovrebbe svolgersi il 20 ad Addis Abeba mentre il 4 novembre è in programma una grande conferenza. Nessuno ha invitato Aidid, naturalmente, e lui si è adombrato, tanto che l'altra sera, alle 20, puntualissimo, ha parlato per chiarire il suo punto di vista alla «Voce delle masse somale», una radio che trasmette in clandestinità e che gli uomini dell'Onu non hanno ancora individuato oppure, per una qualche ragione, hanno deciso di non chiudere. Usa il tono del grande fra i grandi, Mohammed Farah Aidid, capo di migliaia di uomini armati. Tiene in scacco il mondo e la cosa lo appaga, evidentemente. E così risponde «ai discorsi fatti dal presidente Bill Clinton e dalla sua Amministrazione». Quindi ha aggiunto che qualsiasi incontro o conferenza non avrà alcun valore, «se non si consultano i somali». E per somali intende quelli che gli sono più vicini in questa dissennata faida di tribù (ma anche il suo acerrimo nemico Ali Mahdi Mohamed si è espresso ieri quanto meno per un rinvio della conferenza). Naturalmente Bill Clinton si guarda bene dal rispondere, anche se quello somalo rischia di diventare per la sua Amministrazione «il» problema. Non risponde ma informa gli alleati sulla politica Usa e così ad Azeglio Ciampi è giunta una lunga lettera con la quale il Presidente americano sottolinea punto per punto quello che gli Usa intendono fare per risolvere il problema. L'Italia segue la sua linea, l'ambasciatore Mario Scialoja è partito da Mogadiscio per consultazioni. I militari evitano provocazioni, ma tengono gli occhi aperti e ieri due ladroni armati sono stati catturati da quelli del Col Moschin presso l'ambasciata. Vincenzo Tessandori

Luoghi citati: Addis Abeba, Africa Orientale, Italia, Mogadiscio, Somalia, Usa, Vietnam